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Migrazioni e Forum sociale mondiale
dell'isola
degli schiavi
di Pierluigi Natalia
Tra le proposte più significative emerse dal Forum sociale mondiale, tornato quest'anno in Africa, c'è quella di una Carta dei migranti, messa a punto fin nella settimana di lavori a Dakar, in Senegal, un documento che ha la particolarità di essere stato scritto proprio da migranti.
Centinaia di delegati di persone costrette a lasciare i loro Paesi, soprattutto africani, hanno tenuto un'assemblea nell’isola di Gorée, nella baia di Dakar, da dove partirono milioni di schiavi per le Americhe.
Un chiaro valore simbolico è stato dato alla scelta di questo luogo, patrimonio dell’umanità, proponendolo come monito da un lato a riscattare l'epoca della tratta e dall'altro a non rendere le rotte della mobilità un modo per ridurre di nuovo in schiavitù tanti esseri umani. Non a caso, l'assemblea si è data come titolo «Gorée 2011, ritorno verso l’umanità» e come tema «Una Carta per un mondo senza muri».
L'approvazione della Carta è stato il punto d'arrivo di un confronto incominciato nel 2006 dai sans papiers di Marsiglia, e continuato in questi anni nei vari continenti. A Gorée, quei migranti africani hanno chiesto con forza la tutela dei loro diritti.
Nel preambolo della Carta si afferma che «i migranti sono presi di mira da politiche ingiuste, a scapito dei diritti universalmente riconosciuti a ogni essere umano, che portano le persone a opporsi le une alle altre, attraverso strategie discriminatorie fondate sulla preferenza nazionale, l’appartenenza etnica o religiosa. Queste politiche sono imposte da sistemi che cercano di mantenere i privilegi dei pochi, sfruttando la forza lavoro dei migranti».
La Carta mira anche alla formazione di un’alleanza mondiale dei migranti che promuova la loro partecipazione alla creazione di un mondo plurale, solidale e responsabile. I più significativi principi enunciati nel documento sono l'accesso all’istruzione, i diritti al lavoro, alla sicurezza, all’alloggio, libertà di riunione, il diritto a poter parlare la propria lingua materna e a far conoscere la propria cultura.
Nel documento, non manca una radicale ed estensiva interpretazione del diritto a migrare, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. A Gorée è stato infatti chiesto il riconoscimento del diritto a poter vivere ovunque, di fatto un’utopia. Ma l’analisi fatta a Gorée, comunque, resta ancorata alla realtà riguardo ai mutamenti dei flussi migratori e alle loro conseguenze sul piano economico, sociale e della sicurezza della convivenza, oltre che sui loro collegamenti al generale contesto geopolitico.
La strage delle migliaia di persone morte mentre tentano di raggiungere un futuro migliore è solo uno degli aspetti di questa tragedia. Al Forum di Dakar diverse voci hanno sostenuto, per fare solo un esempio, come le crisi in atto nel Maghreb siano determinate anche dal venir meno della valvola di sfogo che negli ultimi decenni l'immigrazione in Europa ha rappresentato per le fasce più in difficoltà delle popolazioni di quei Paesi.
Un legame tra crisi nel Maghreb e immigrazione irregolare è stato fatto nelle stesse ore dal segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, in una conferenza stampa tenuta a Bruxelles. Secondo Rasmussen, i disordini in Egitto, come quelli in Tunisia e in altri Paesi dell'Africa settentrionale e del Vicino Oriente non costituiscono una minaccia diretta per i 28 membri dell’alleanza, ma potrebbero avere un impatto sul processo di pace nella regione e sulla sua stabilità in generale. Al tempo stesso potrebbero avere, in una prospettiva di più lungo termine, riflessi sulle economie «che potrebbero aumentare l’immigrazione illegale in Europa e, quindi, indirettamente l’evoluzione della situazione potrebbe avere un impatto negativo sull'Europa».
Diverse sessioni di dibattito al Forum di Dakar, comunque, hanno ribadito che l’unica risposta al dramma dell’immigrazione, come alle altre emergenze dell’Africa e del sud del mondo in genere, stia nello sviluppo locale, su modelli diversi da quelli finora perseguiti. In questo, un ruolo fondamentale ha la tutela delle donne e dei giovani, che costituiscono le parti sociali più deboli e che devono essere sostenuti se si vuole costruire una convivenza più attenta agli autentici bisogni delle popolazioni.
La questione è rilevante anche riguardo al fenomeno della mobilità umana. Sono infatti proprio le donne e i giovani, per non dire i bambini, a rimanere più facilmente vittime dei trafficanti di esseri umani che sfruttano la disperazione di tanti infelici.
(©L'Osservatore Romano - 11 febbraio gennaio 2011)
Il XVI vertice dell'unione africana
L'Africa
di fronte alle crisi
nel Maghreb
di Pierluigi Natalia
Le rivolte nel Maghreb, la crisi in Costa d’Avorio e le prospettive aperte dall’ormai certa indipendenza del Sud Sudan sono i principali argomenti di attualità politica — insieme con le endemiche tragedie nel Corno d’Africa e nei Grandi Laghi e con le persistenti emergenze in altre aree — all’esame del vertice dei capi di Stato e di Governo dell’Unione africana, domenica 30 e lunedì 31 gennaio ad Addis Abeba.
In particolare, l’attenzione, forse per la prima volta, è in queste ore più sull’Africa settentrionale che su quella subsahariana. Oltre alla vicenda sudanese, c’è infatti l’effetto domino della rivolta in Tunisia sugli altri Paesi del Maghreb e, più in generale, del mondo arabo.
Tale effetto si sta verificando in modo accentuato e accelerato in Egitto, ma altre situazioni sembrano in procinto di esplodere. Del resto, tutti i Paesi dell’area hanno in comune una crisi economica che colpisce soprattutto i ceti più deboli, ma che sta facendo arretrare anche i ceti medi, mentre la percezione pubblica è quella di Governi autoreferenziali e sempre più lontani dai bisogni delle popolazioni.
Quelle che una volta sarebbero state definite sommosse per il pane stanno dunque sfociando in generalizzate contestazioni di sistema.
A questo si aggiungono le difficoltà sempre crescenti a emigrare, proprio mentre guerre e violenze, ma anche l'accresciuta miseria, spingono milioni di persone, senza adeguate tutele e spesso destinate a restare vittime di trafficanti, a prendere le strade difficili della mobilità.
La diplomazia africana e quella internazionale guardano con preoccupazione al precipitare degli avvenimenti e non manca, tra l'altro, il timore che la protesta popolare possa essere infiltrata da elementi legati al terrorismo internazionale.
E tutto ciò avviene in un continente in cui la spinta all’unità d’intenti resta precaria e ostacolata dal persistere di una dipendenza economica da schemi di tipo coloniale, cioè dalle esportazioni di materie prime e da monocolture destinate soprattutto ai consumi del nord ricco del mondo.
Ne consegue che anche gli aumenti di prodotto interno lordo non si traducono in effettivi benefici sociali. In un rapporto pubblicato nei giorni scorsi sempre ad Addis Abeba, gli esperti della Commissione economica dell’Onu per l’Africa ammoniscono che alla prevista e accentuata crescita economica del continente nel 2011 rispetto al biennio precedente non corrisponderà un aumentato sviluppo sociale.
In un tale contesto, l’importanza di questo XVI vertice ordinario dell’organizzazione panafricana va dunque oltre le questioni contingenti e si proietta nel futuro a medio termine, con la necessità di trovare strade comuni per colmare i ritardi sugli obiettivi di sviluppo. Non a caso, infatti, il vertice è convocato sul tema: «Valori condivisi per una più grande unità e integrazione».
Di strumenti concreti per raggiungere tale obiettivo — soprattutto di finanziamenti a progetti e programmi — si sono occupati i lavori preparatori che hanno impegnato in settimana il comitato dei rappresentanti permanenti.
Tra i punti in agenda c’è l’esame del bilancio 2011-2012 della Commissione esecutiva dell’Unione africana, guidata da Jean Ping. Sulla fonte dei previsti finanziamenti di circa 258 milioni di dollari permane incertezza. La Commissione dovrà puntare sempre più su risorse interne africane, data la crescente reticenza dei partner esteri a sbloccare ulteriori fondi a suo favore. Ma finora nessun consenso tra i Paesi membri è stato raggiunto sulla loro provenienza, per esempio con nuove tassazioni di settori economici redditizi, come le esportazioni petrolifere o le entrate del turismo.
Né più consenso c'è sul terreno di applicazione degli investimenti, cioè sulla direzione dello sviluppo. Accordi in questo senso tra tutti i Paesi finora sono sostanzialmente mancati, sia per le perduranti e vaste differenze tra le varie realtà africane, sia per scarsità di efficaci leadership politiche continentali o almeno macroregionali, sia per l’interesse delle grandi potenze tradizionali e di quelle emergenti a conservare, consolidare o instaurare proprie aree di influenza, piuttosto che cercare una cooperazione globale con l’Africa, favorendone e sostenendone il processo di integrazione.
L'Osservatore Romano, domenica 30 gennaio 2011
Il varo del nuovo Governo non ferma le proteste
Sbocchi incerti
della crisi
in Tunisia
di Pierluigi Natalia
In Tunisia non s'intravede ancora uno sbocco certo della crisi, avviata da una rivolta per così dire primaria - dovuta cioè a rincari di generi alimentari e alla crescente disoccupazione, soprattutto giovanile - ma che si è via via rivelata una sempre più imponente contestazione di sistema.
Il susseguirsi degli eventi, culminati venerdì 14 gennaio nella fuga dell'ex presidente Zin el Abdin Ben Ali, rimasto al potere per oltre 23 anni, rende difficile fare previsioni attendibili. Né il varo di un Governo di transizione guidato dal primo ministro Mohammed Ghannouchi, rimasto in carica anche dopo la fuga di Ben Ali, sembra aver placato la protesta popolare, anche se nelle ultime ore c'è stato un raffreddamento della crisi, almeno nei suoi aspetti di rivolte di piazza.
Gran parte della società civile, a partire dalla base del maggior sindacato del Paese, l'Ugtt - i cui vertici avevano in un primo momento indicato alcuni dei ministri del nuovo Governo - ha infatti contestato e continua a contestare quella che ha ritenuto una manovra conservativa del sistema di potere costituitosi intorno a Ben Ali, anche senza quest'ultimo.
La posizione di Ghannouchi sembra tutt'altro che solida, anche se è stato superato il potenziale conflitto che si era creato sabato 15, quando la Corte costituzionale, avallando la destituzione di Ben Ali, aveva stabilito che si devono tenere elezioni presidenziali entro due mesi e che la guida dello Stato ad interim spetta nel frattempo al presidente del Parlamento, Fuad Mebazaa, e non al primo ministro al quale l'aveva affidata Ben Ali al momento della fuga. Nel frattempo, però, Ghannouchi aveva avviato le consultazioni con l'opposizione, senza attendere l'incarico formale di Mebazaa, poi arrivato. L'ex presidente del Parlamento, infatti, come sua prima iniziativa aveva da un lato dichiarato decaduto il Governo, ma dall'altro aveva incaricato Ghannouchi di formarne uno di unità nazionale.
Questo Governo, peraltro, è nato in una condizione di palese debolezza (prima ancora che si riunisse - il primo consiglio dei ministri c'è stato giovedì 20 - si erano già dimessi quattro ministri, tre dei quali espressione appunto del sindacato) e non sembra aver convinto i manifestanti, nonostante gli annunci e le promesse. Tra queste figura l'impegno a varare un provvedimento di amnistia generale che permetta il rientro in Tunisia di tutti gli oppositori sul cui capo pendono condanne di vario genere
Ma anche questo potrebbe non bastare. Il punto cruciale, infatti, resta quello della permanenza al potere di numerosi esponenti del vecchio regime. Per rassicurare la popolazione, tutti i ministri del nuovo Esecutivo provenienti dalla vecchia nomenclatura si sono dimessi dal Rassemblement costitutionel democratique, il partito di Ben Ali e altrettanto hanno fatto Ghannouchi e Mebazaa. Ma restano dubbi sull'efficacia di questa operazione che in molti in Tunisia considerano un'azione di mera facciata.
Così come resta l'incognita sul comportamento dell'esercito e sull'effettivo controllo che ne hanno le superstiti autorità civili, compreso appunto Mohammed Ghannouchi. Alcuni osservatori non considerano tramontata l'ipotesi di un possibile colpo di Stato militare, anche perché non è stata fatta chiarezza sulla rimozione e sulla successiva reintegrazione del capo di stato maggiore Rashid Ammar, che aveva rifiutato di reprimere con la forza le proteste.
La linea della diplomazia internazionale, con qualche distinguo, rimane per ora di prudente valutazione degli sviluppi. Non manca, tra l'altro, la preoccupazione che la protesta popolare possa essere infiltrata da elementi legati al terrorismo internazionale. Del resto, prima che la crisi precipitasse, non poche cancellerie avevano sottolineato, in proposito delle dimostrazioni in Tunisia e in Algeria, il ruolo di quei Governi nella lotta al terrorismo globale avviata dopo gli attentati negli Stati Uniti dell'11 settembre 2001, in quello che era apparsa ad alcuni commentatori una presa di distanza dalle ragioni delle proteste popolari.
La fuga di Ben Ali ha in parte mutato tale atteggiamento, almeno per quanto riguarda la Tunisia, ma molti commentatori, anche nel mondo arabo, sottolineano che la questione va oltre il pur rilevante significato della caduta dell'uomo che ha tenuto per 23 anni il potere, facendo dello Stato una sorta di proprietà personale sua e della sua famiglia (le proteste, se possibile, hanno investito la moglie di Ben Ali, Leila Trabelsi, e i suoi potenti congiunti, alcuni dei quali arrestati dopo la fuga dei due coniugi, con vigore anche maggiore di quello riservato al marito).
L'eco degli avvenimenti tunisini incomincia a risuonare in più di un Paese del Maghreb e del mondo arabo in genere, in modo non proprio rassicurante per molti Governi dell'area. La porosità dei confini nel Vicino e Medio Oriente, con l'ovvia eccezione di Israele, e la vasta condivisione delle culture favoriscono infatti un effetto domino per il quale alcuni avvenimenti in un Paese hanno riscontri quasi immediati in altri. Del resto, i tratti comuni sono molti: giovani con un futuro incerto, una crisi economica che sta colpendo anche le zone meno depresse del nord Africa, i ceti medi sempre più poveri, Governi lontani dalle esigenze della popolazione, le porte europee sempre più chiuse all'immigrazione.
In ogni caso, prevedere al momento gli effetti nel breve periodo della protesta tunisina in altri Paesi resta ovviamente difficile, né va sottovalutata la capacità di sopravvivenza dei regimi arabi autoritari, provata da decenni. Inoltre, va considerato che la Tunisia è uno Stato che non ha mai lasciato "una porta aperta per la società civile o per l'opposizione", come ha sostenuto nei giorni scorsi Amr al Chobaki, dell'Istituto di studi politici e strategici al Ahram del Cairo, mentre altrove, per esempio in Egitto, esistono valvole di sfogo "per permettere al popolo di rallentare le tensioni e per evitare l'esplosione sociale".
Tuttavia, il segnale è chiarissimo. Così come dovrebbe risultare chiaro che il sostegno a regimi di fatto autoritari, vuoi per interessi economici vuoi per garantirsi alleati nella lotta al terrorismo, spiana la strada alla penetrazione proprio di quel radicalismo di matrice fondamentalista religiosa che con il terrorismo è abituato a flirtare. In un'epoca in cui tutte le iniziative vengono lette alla luce della globalizzazione, è non solo giusto, ma anche utile alle democrazie - in prospettiva anche sul piano strettamente economico - promuovere soprattutto una globalizzazione dei diritti.
(©L'Osservatore Romano - 22 gennaio 2011)
Il referendum in Sud Sudan
La sfida
di una
secessione
pacifica
di Pierluigi Natalia
La nascita del nuovo Stato indipendente del Sud Sudan - che per unanime previsione sarà sancita dal referendum di questa domenica - promette la fine di decenni di conflitti, ma prospetta anche un periodo di incertezza per molte e irrisolte crisi di quell'area dell'Africa.
Il presidente sudanese Omar Hassam el Bashir ha reiterato le assicurazioni di pieno rispetto dell'esito del referendum e la promessa di rapporti di collaborazione persino più stretti di quelli finora tenuti nello Stato unitario. Tuttavia, ci sono nodi lasciati in sospeso dall'Accordo generale di pace siglato il 9 gennaio 2005 tra Khartoum e gli allora ribelli dell'Esercito di liberazione del popolo sudanese, oggi alla guida del Sud Sudan autonomo. Proprio tale accordo prevedeva che la popolazione potesse scegliere entro sei anni con un referendum se costituirsi in Stato indipendente o se mantenere l'unità con Khartoum con l'attuale forma di ampia autonomia. A pronunciarsi domenica saranno quasi quattro milioni di elettori, 3.737.000 nel sud, 116.000 nel nord e 60.000 negli otto Stati esteri nei quali vivono. Per la validità della consultazione serve un'affluenza alle urne di almeno il 60 per cento.
Incassata l'indipendenza, il presidente sudsudanese Salva Kiir Mayardit e i vertici dell'amministrazione locale avranno come priorità dei prossimi mesi la denominazione del Paese, la creazione di un'Assemblea costituente, la regolamentazione degli spostamenti e della cittadinanza delle persone. Ma altre questioni aperte potrebbero riaccendere la conflittualità tra le due zone di quello che finora è stato il più vasto Paese dell'Africa, a partire dalle intese non ancora chiarissime sulla suddivisione degli utili petroliferi, compresi quelli della contesa regione dell'Abyei.
Tra i problemi interni del Sud Sudan c'è poi sicuramente la questione della sicurezza, messa a rischio sia da persistenti scontri di matrice tanto etnica quanto economica, tra popolazioni dedite all'agricoltura e alla pastorizia nomade, sia da minacce ai confini meridionali. Nell'intricata interconnessione tra le diverse crisi della regione dei Grandi Laghi, infatti, il Sud Sudan ha sempre avuto un ruolo strategico e logistico.
Sullo sfondo, inoltre, c'è la possibilità che la nascita nel cuore dell'Africa un nuovo Stato, non arabo e non musulmano, di otto milioni e mezzo di abitanti appartenenti a una sessantina di tribù diverse, possa essere ritenuta una sfida dai gruppi di matrice fondamentalista islamica che negli ultimi mesi hanno moltiplicato la loro aggressività, come dimostrano i recenti avvenimenti in Egitto, ma anche la perdurante crisi somala. Tanto più che il nuovo Stato sembra destinato a collocarsi nella sfera degli alleati degli Stati Uniti - anche se il presidente Barack Obama sembra pronto a ricompensare Khartoum con un alleviamento del debito estero e delle sanzioni - e che Salva Kiir Mayardit ha anche prospettato ottimi rapporti diplomatici con Israele.
A questo si aggiunge la diffidenza di non pochi Paesi africani - non solo arabi, come la Libia e lo stesso Egitto che l'hanno espressa palesemente, sia pure con toni diversi - timorosi che la secessione sudsudanese possa costituire un precedente. Significativo, in questo senso, è stato il recente pronunciamento dell'Unione africana sulla inviolabilità dei confini degli Stati membri. Né a tale preoccupazione è estraneo il timore di una colonizzazione in forma rinnovata da parte delle potenze extracontinentali.
Resta poi aperta la questione della crisi nel Darfur, la regione occidentale sudanese, abitata anch'essa da popolazioni non arabe. La speranza di arrivare alla pace tra i gruppi armati del Darfur e Khartoum prima del referendum in Sud Sudan non si è realizzata e i prossimi sviluppi della crisi sono ancora tutti da comprendere, ma sembra ragionevole pensare che il nuovo Stato possa avervi un ruolo determinante.
Sul piano economico e dei rapporti internazionali, la questione centrale resta quella del petrolio, con mire evidenti tanto delle tradizionali potenze occidentali, a partire dalla Gran Bretagna, ex Paese coloniale, e dagli Stati Uniti, quanto della Cina, impegnata in una sempre più intensa penetrazione in Africa. Tuttavia, gli osservatori più attenti vedono proprio nella dipendenza dalle esportazioni petrolifere un frutto avvelenato per il nascituro Stato. Una diversificazione dell'economia è infatti cruciale per lo sviluppo di questa come di altre parti dell'Africa. Il Sud Sudan ha un potenziale agricolo enorme, che potrebbe offrire grande opportunità, anche per la posizione al centro dell'Africa, che faciliterebbe gli scambi con Paesi limitrofi. Soprattutto, a una popolazione per il 90 per cento sotto la soglia di povertà e per l'85 per cento analfabeta, servirebbero grandi investimenti nell'istruzione e nelle politiche sanitarie.
Altra grande questione è quella legata alla nascita di un nuovo attore nella gestione dell'acqua del Nilo. Finora, la posizione predominante dell'Egitto e, in misura minore, del Sudan non è stata scalfita, ma un nuovo Stato non arabo potrebbe rafforzare la richiesta degli altri Paesi del bacino di arrivare finalmente a una ridefinizione delle quote. Non a caso, tra l'altro, tra i nomi ipotizzati per il nuovo Stato, accanto a Sud Sudan, Nuovo Sudan e Juwama, c'è proprio quello di Repubblica del Nilo.