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Comunità internazionale e crisi in Costa d’Avorio

 Il presidente ivoriano Alassane Ouattara ad Abidjan (LaPresse/Ap)
Il sangue
e il cacao







di Pierluigi Natalia
La cattura di Laurent Gbagbo conclude il braccio di ferro con Alassane Ouattara, vincitore delle elezioni presidenziali del 28 novembre scorso, ma non scioglie i nodi dell’annosa vicenda ivoriana. Allo scontro politico e in qualche misura etnico sfociato nella ripresa della guerra civile fanno infatti da sfondo i fortissimi interessi, in prevalenza stranieri, sul cacao, del quale il Paese è primo produttore mondiale. Basti ricordare che la guerra in Costa d'Avorio, uno dei pochi Paesi in cui alla fine del colonialismo erano seguiti decenni di pace, scoppiò quando crollò il prezzo del cacao sui mercati, dopo la decisione internazionale di abbassare notevolmente la percentuale di cacao nei prodotti alimentari che possono essere venduti come cioccolato.

Oltretutto, nell'esito di quest’ultimo conflitto è stato determinante l’intervento straniero, sia delle truppe della missione francese Liocorne, sia dei caschi blu dell’Onuci, la missione dell’Onu considerata alla fine dai sostenitori di Gbagbo come una forza d’occupazione.

Sia l’Onu sia la Francia hanno motivato l’uso della forza con il dovere di proteggere le popolazioni civili, oltre che come risposta agli attacchi delle milizie di Gbagbo. Ma l’intervento della Francia, particolarmente attiva in questo periodo in diverse crisi internazionali, africane e non solo, viene letto da molti commentatori anche con motivazioni di politica interna, ma soprattutto con la volontà di tutelare i propri ingenti interessi economici nel Paese. Alcuni commentatori spiegano anche l'ultima accelerazione militare con il blocco delle esportazioni di cacao e con il pericolo che si deteriorino le giacenze nei magazzini.

Riesaminando gli avvenimenti di questi ultimi mesi, ci sono pochi dubbi che a far riprecipitare il Paese nella guerra civile sia stata l’ostinazione di Gbagbo di non riconoscere il risultato del voto certificato dalla commissione elettorale e dagli osservatori internazionali. Ma va ricordato che la decisione del Consiglio costituzionale, controllato da Gbagbo, di dichiarare nulli i voti in quattro regioni nelle quali Ouattara aveva ottenuto una forte maggioranza, si era basata su un punto che da sempre impedisce il consolidamento della democrazia ivoriana, cioè il concetto di cittadinanza, in un Paese nel quale c’è una pluridecennale e imponente immigrazione. Comunità provenienti dal Burkina Faso, dal Mali, dal Senegal, dalla Nigeria e dalla Liberia sono presenti in Costa d’Avorio fin dagli anni in cui era considerata una vetrina di sviluppo per l’intero continente.

Volendo approfondire il concetto, si può parlare di un altro capitolo della contesa sull’eredità politica di Félix Houphouet Boigny, il primo presidente della Costa d’Avorio che guidò il Paese dalla fine della colonizzazione francese, nel 1960, al 1993, facendone un’eccezione pacifica nel contesto della decolonizzazione africana. La politica di Boigny si basò sulla nozione di ivoirité, un concetto non etnico, ma politico che definisce le caratteristiche della nazione sulla base dell’essere cittadino ivoriano e che si applica al processo di democratizzazione e persino alla vita culturale (in questo caso, diversi studiosi usano la formula di preferenza nazionale).

Non a caso, le elezioni dell’anno scorso, originariamente previste per il 2007, avevano subito numerosi rinVII proprio per i contrasti sulla composizione delle liste elettorali. Quando si è finalmente votato, è riesplosa la questione di fondo, con i sostenitori di Gbagbo che hanno accusato Ouattara di essere stato eletto dagli stranieri, intesi sia come immigrati, sia come Governi e istituzioni sovranazionali. Del resto, Ouattara, egli stesso di famiglia in parte burkinabé, ha costruito la sua vittoria anche sulla rappresentanza delle comunità ivoriane di origine straniera. Da parte sua, Gbagbo — che pure per molti anni è stato abbondantemente sostenuto e finanziato dall’estero — alla fine si è presentato come campione dell’autoderminazione ivoriana contro gli stranieri, indicando come nemici della patria la Francia, l’Onu e anche la Comunità economica dei Paesi d’Africa occidentale (Ecowas), schieratasi con Ouattara. A spingere l’Ecowas sono state soprattutto le conseguenze della paralisi del commercio ivoriano, visto che la Costa d’Avorio è la seconda potenza economica dell’area, dopo la Nigeria, e contribuisce da sola al 40 per cento del prodotto interno lordo dell’Unione economica e monetaria d’Africa occidentale (Uemoa). Non a caso, tra i primi provvedimenti internazionali sulla crisi ivoriana c’è stata proprio l’espulsione dei rappresentanti di Gbagbo dall’Uemoa.

A questo si è sommato l’annoso contrasto tra i due protagonisti. Ouattara, primo ministro di Boigny, negli anni 1992-1993, fece incarcerare Gbagbo, all’epoca all’opposizione. Da parte sua, Ouattara non dimentica certo che sia il successore di Boigny, Henri Konan Bédié, sia lo stesso Gbagbo emanarono leggi nazionalistiche mirate a impedirgli per anni la candidatura a presidente, proprio a motivo della sua ascendenza in parte burkinabé.

In ogni caso, il compito di Ouattara non si annuncia facile, né gli basterà il sostegno internazionale per essere riconosciuto come l’uomo della pacificazione nazionale. A meno che quel sostegno non si traduca, nei fatti, nello scrivere una nuova pagina di rapporti internazionali davvero paritari e solidali. In questo caso, potrebbe esserci spazio per una nuova generazione di politici stanchi di corruzione e di compromessi al ribasso e la Costa d’Avorio potrebbe tornare una vetrina di pace e di sviluppo e una speranza per l’Africa tutta.

 (©L'Osservatore Romano 14 aprile  2011)

La vittoria di Martelly nel ballottaggio per la presidenza

La vittoria di Martelly nel ballottaggio per la presidenza - Pierluigi Natalia


Haiti
tra elezioni
ed emergenza



di Pierluigi Natalia
La vittoria di Michel Martelly nel ballottaggio del 20 marzo scorso per la presidenza di Haiti — i risultati definitivi saranno proclamati il 16 aprile, ma quelli provvisori diffusi dal consiglio elettorale non sembrano lasciare dubbi — si presta a una duplice lettura. Da un lato mette fine a un’incertezza politica più volte degenerata nei mesi scorsi in violenze, ma dall'altro sembra lasciare irrisolti gli interrogativi sulla possibilità del Paese di voltare pagina e di uscire da una crisi che già nel 2008 portò a rivolte della fame e che il terremoto dell'anno scorso ha reso spaventosa. Secondo i risultati provvisori, Martelly, candidato da Repons Peyizan e conosciuto finora soprattutto come cantante di successo, ha riportato una netta vittoria, con il 67,57 per cento, su Mirlande Manigat, candidata del Rassemblement des Démocrates Nationaux Progressistes, che si è fermata al 31,74 per cento. Il dato appare tanto più significativo se si considera che in un primo momento Martelly era risultato addirittura escluso dal ballottaggio. La commissione elettorale, infatti, lo aveva classificato terzo, dietro alla stessa Manigat e a Jude Célestin, candidato della piattaforma Inite, quella del presidente uscente René Préval. Dopo accuse di brogli e di irregolarità, sfociate in disordini, l'Organizzazione degli Stati americani (Osa) aveva imposto un riconteggio che aveva portato Martelly al ballottaggio, escludendo Célestin.

In questa tornata elettorale, però, si è rinnovato anche il Parlamento e ne è uscita rafforzata proprio la Inite, diventata la prima forza politica del Paese, sebbene senza la maggioranza assoluta. Ciò significa che Martelly dovrà confrontarsi con un Parlamento dominato dall'opposizione. Va comunque detto che sulla rappresentatività tanto del presidente quanto del Parlamento incide la scarsa partecipazione al voto. Al primo turno si erano recati alle urne appena il 20 per cento degli elettori. Sul ballottaggio mancano ancora i dati ufficiali, ma l'affluenza non sembra essere stata maggiore.

Inoltre sembrano destinati a giocare un ruolo anche l'ex dittatore Jean Claude Duvalier, meglio conosciuto come Baby Doc, e l'ex presidente Jean-Bertrand Aristide. Baby Doc, restò al potere dalla morte del padre, il precedente dittatore François Duvalier, detto Papa Doc, nel 1971 fino al 1986. In piena campagna elettorale è rientrato in patria dopo venticinque anni di esilio in Francia, dicendosi deciso a riassumere un ruolo politico. Per il momento, comunque, è agli arresti domiciliari in ospedale dove si è fatto ricoverare, dato che il suo rientro ha rimesso in moto procedimenti giudiziari per crimini contro l’umanità, oltre che per appropriazione indebita di fondi pubblici. Ma un ruolo sembra destinato ad averlo. Tra l'altro, lo stesso Martelly, che pure ha basato la sua campagna elettorale cavalcando il malcontento popolare nei confronti dei vecchi dirigenti politici, ha legami con i gruppi di potere che hanno sempre fatto riferimento ai Duvalier e non ha escluso di voler nominare Baby Doc suo consigliere.

Da parte sua, Aristide, allontanato nel 2004, dopo una sollevazione armata, con un intervento congiunto franco-statunitense e che a sua volta ha trascorso sette anni di esilio in Sud Africa, vuole porsi di nuovo alla guida dei suoi sostenitori, tuttora ritenuti da molti osservatori la maggioranza della popolazione.

Nel frattempo resta incerta la prospettiva di ripresa di Haiti. La ricostruzione dopo il terremoto dipende in pratica dal sostegno della comunità internazionale, in grave ritardo nell'adempimento delle promesse fatte. Quindici mesi dopo il sisma, due milioni di haitiani sono ancora nelle tendopoli, mentre non si riesce a fermare l'epidemia di colera scoppiata in estate e peggiora la condizione economica di una popolazione già tra le più povere del mondo. Nelle ultime due settimane ci sono pesanti rincari dei carburanti e dei generi alimentari. Il prezzo La benzina è più che raddoppiato, passando da 95 a 200 gourdes al gallone (da 2,4 a 5 euro ogni 3,79 litri), mentre gasolio e kerosene sono rincarati del 30 per cento. Il sacco di farina è passato da 1.500 a 2.000 gourdes. E la somma di incertezza politica, mancata ricostruzione e aumento del costo della vita, potrebbe rigettare il Paese nelle rivolte della fame del 2008.

(©L'Osservatore Romano 7 aprile  2011) 

Un passaggio epocale in un'area tra le più critiche al mondo

Un passaggio epocale in un'area tra le più critiche al mondo - Pierluigi Natalia

 

 Il vento
del
Maghreb

 

di PIERLUIGI NATALIA

Gli avvenimenti nel Maghreb - e più in generale nel mondo arabo, dallo Yemen al Bahrein - potrebbero segnare un passaggio epocale in un'area del mondo considerata da sempre tra le più critiche. Ormai diverse voci li paragonano ai fatti del 1989-1990 nell'est europeo.
L'effetto domino della rivolta in Tunisia - favorito dalla comunicazione su internet - si è subito verificato in Egitto, e già si profila in altri Paesi nordafricani: Algeria, Marocco e da ultima la Libia, dove nella notte tra martedì 15 e mercoledì 16 febbraio ci sono stati, scontri di piazza. A Bengasi si sono infatti affrontati manifestanti infuriati per l'arresto di un avvocato difensore di oppositori, polizia e sostenitori del Governo. La stampa locale filogovernativa riferisce di cortei a sostegno del leader Muammar Gheddafi, ma per venerdì è già stata convocata una manifestazione d'opposizione che i social network annunciano imponente. Il riferimento a internet non è casuale: innescate da una crisi economica che colpisce i ceti più deboli, ma che sta facendo arretrare anche i ceti medi, le proteste nell'area mostrano anche fattori di novità. Ne sono protagoniste popolazioni giovani, tra le quali si sono alzati tanto il livello di istruzione, quanto l'accesso all'informazione globale, senza però un'aumentata prospettiva di lavoro e di sviluppo.
A questo si aggiungono le difficoltà sempre crescenti poste all'emigrazione - tradizionale valvola di sfogo - proprio mentre le violenze, ma anche l'accresciuta miseria, spingono fuori dalla loro patria milioni di persone, senza adeguate tutele e spesso destinate a restare vittime di trafficanti. Gli avvenimenti sollecitano dunque anche un ripensamento mondiale delle politiche di gestione della mobilità umana, evitando che di volta in volta siano fattori emergenziali a determinare le risposte.
Più in generale, in queste settimane i Governi dell'Occidente - gli Stati Uniti soprattutto, ma anche l'Europa - sono sembrati spesso colti di sorpresa dagli avvenimenti. A ciò non è stato estraneo il timore che le proteste possano essere infiltrate dal terrorismo internazionale. La fuga di Ben Ali dalla Tunisia e la rinuncia al potere di Mubarak in Egitto hanno in parte mutato tale atteggiamento, ma molti commentatori, anche nel mondo arabo, parlano già di occasione persa dall'Occidente di porsi come riferimento e alleato di popoli che aspirano al cambiamento.
Del resto, non pochi osservatori ricordano che lo sviluppo è il principale antidoto contro quella stagnazione in cui prolifera il terrorismo. E contro la tentazione del fondamentalismo religioso. Le stesse violenze a sfondo etnico religioso si alimentano di situazioni di degrado e si traducono spesso in guerre tra poveri: si pensi ai recenti avvenimenti in Nigeria o in India.
Così come alcuni commentatori ritengono che nella costruzione di un mondo plurale e pacifico, il principale contributo occidentale debba essere la diffusione di una vera cultura dell'uomo, basata sul crescente riconoscimento dei suoi diritti, a partire da quelli alla vita e alla libertà religiosa



(©L'Osservatore Romano 17 febbraio 2011)

Migrazioni e Forum sociale mondiale

Migrazioni  e  Forum sociale mondiale - Pierluigi Natalia
Il riscatto
dell'isola
degli schiavi


di Pierluigi Natalia
Tra le proposte più significative emerse dal Forum sociale mondiale, tornato quest'anno in Africa, c'è quella di una Carta dei migranti,  messa a punto fin nella settimana di lavori a Dakar, in Senegal, un documento  che ha la particolarità di essere stato scritto proprio da  migranti. 
Centinaia di delegati di  persone costrette a lasciare i loro Paesi,  soprattutto africani, hanno tenuto un'assemblea nell’isola di Gorée, nella baia di Dakar,  da dove partirono  milioni di schiavi per le Americhe.
Un chiaro valore simbolico è stato dato alla scelta di questo luogo,  patrimonio dell’umanità, proponendolo come monito da un lato  a riscattare l'epoca della tratta  e dall'altro  a non rendere le rotte della mobilità un modo per ridurre di nuovo in schiavitù tanti esseri umani. Non a caso, l'assemblea si è data come titolo «Gorée 2011, ritorno verso l’umanità» e come tema «Una Carta per un mondo senza muri».
 L'approvazione della Carta è stato il punto d'arrivo di un confronto  incominciato  nel 2006 dai sans papiers di Marsiglia, e continuato in questi anni nei vari continenti. A  Gorée,  quei  migranti africani hanno chiesto  con forza la tutela dei loro diritti.
Nel preambolo della Carta si afferma che «i migranti sono presi di mira da politiche ingiuste,  a scapito dei diritti universalmente riconosciuti a ogni essere umano, che portano le persone a opporsi le une alle altre, attraverso strategie discriminatorie fondate sulla preferenza nazionale, l’appartenenza etnica o religiosa. Queste politiche sono imposte da sistemi che cercano di mantenere i privilegi dei pochi, sfruttando la forza lavoro dei migranti». 
La Carta mira anche alla formazione di un’alleanza mondiale dei migranti che promuova la loro partecipazione alla creazione di un mondo plurale, solidale e responsabile. I più significativi principi enunciati nel documento sono l'accesso all’istruzione, i diritti al lavoro, alla sicurezza, all’alloggio, libertà di riunione, il diritto a poter parlare la propria lingua materna e a far conoscere la propria cultura.
Nel documento,  non manca una radicale ed estensiva interpretazione del diritto a migrare, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite. A Gorée è stato infatti chiesto il riconoscimento del diritto a poter vivere ovunque, di fatto un’utopia. Ma l’analisi fatta a Gorée, comunque, resta ancorata alla realtà riguardo ai  mutamenti dei flussi migratori e alle loro conseguenze sul piano economico, sociale e della sicurezza della convivenza, oltre che sui loro collegamenti al generale contesto geopolitico.
  La strage delle  migliaia di persone morte mentre tentano di raggiungere un futuro migliore è   solo uno degli aspetti di questa tragedia. Al Forum di Dakar diverse voci hanno sostenuto, per fare solo un esempio,  come  le crisi in atto nel Maghreb siano  determinate anche dal venir meno della valvola di sfogo che negli ultimi decenni l'immigrazione in Europa ha rappresentato per le fasce più in difficoltà delle popolazioni di quei Paesi.
Un legame tra crisi nel Maghreb e immigrazione irregolare  è stato  fatto nelle stesse ore dal segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, in una conferenza stampa tenuta  a Bruxelles. Secondo Rasmussen, i disordini in Egitto, come quelli in Tunisia e in altri Paesi dell'Africa settentrionale e del Vicino Oriente non costituiscono una minaccia diretta per i 28 membri dell’alleanza, ma potrebbero avere un impatto sul processo di pace nella regione e sulla sua  stabilità  in generale.    Al tempo stesso potrebbero avere, in una prospettiva di più lungo termine, riflessi sulle economie «che potrebbero  aumentare l’immigrazione illegale in Europa e,  quindi, indirettamente l’evoluzione della situazione potrebbe avere un impatto negativo sull'Europa».
Diverse sessioni di dibattito al Forum di Dakar, comunque, hanno ribadito che l’unica  risposta al dramma dell’immigrazione, come alle altre emergenze dell’Africa e del sud del mondo in genere, stia nello sviluppo locale, su modelli diversi da quelli finora perseguiti. In questo, un ruolo fondamentale ha la tutela delle donne e dei giovani, che costituiscono le parti sociali più deboli e che devono essere sostenuti se si vuole  costruire una convivenza più attenta agli autentici bisogni delle popolazioni.
La questione è rilevante anche riguardo al  fenomeno della mobilità umana. Sono infatti proprio le donne e i giovani,  per non dire i bambini,  a rimanere più facilmente vittime dei trafficanti di esseri umani che sfruttano la disperazione di tanti infelici.
(©L'Osservatore Romano - 11 febbraio gennaio 2011)

Il XVI vertice dell'unione africana

Il XVI vertice  dell'unione africana - Pierluigi Natalia


L'Africa
di fronte alle crisi
nel Maghreb



di Pierluigi Natalia

Le rivolte nel Maghreb, la crisi in Costa d’Avorio e le prospettive aperte dall’ormai certa indipendenza del Sud Sudan sono i principali argomenti di attualità politica — insieme con le endemiche tragedie nel Corno d’Africa e nei Grandi Laghi e con le persistenti emergenze in altre aree — all’esame del vertice dei capi di Stato e di Governo dell’Unione africana, domenica 30 e lunedì 31 gennaio ad Addis Abeba.

In particolare, l’attenzione, forse per la prima volta, è in queste ore più sull’Africa settentrionale che su quella subsahariana. Oltre alla vicenda sudanese, c’è infatti l’effetto domino della rivolta in Tunisia sugli altri Paesi del Maghreb e, più in generale, del mondo arabo.

Tale effetto si sta verificando in modo accentuato e accelerato in Egitto, ma altre situazioni sembrano in procinto di esplodere. Del resto, tutti i Paesi dell’area hanno in comune una crisi economica che colpisce soprattutto i ceti più deboli, ma che sta facendo arretrare anche i ceti medi, mentre la percezione pubblica è quella di Governi autoreferenziali e sempre più lontani dai bisogni delle popolazioni.

Quelle che una volta sarebbero state definite sommosse per il pane stanno dunque sfociando in generalizzate contestazioni di sistema.

A questo si aggiungono le difficoltà sempre crescenti a emigrare, proprio mentre guerre e violenze, ma anche l'accresciuta miseria, spingono milioni di persone, senza adeguate tutele e spesso destinate a restare vittime di trafficanti, a prendere le strade difficili della mobilità.

La diplomazia africana e quella internazionale guardano con preoccupazione al precipitare degli avvenimenti e non manca, tra l'altro, il timore che la protesta popolare possa essere infiltrata da elementi legati al terrorismo internazionale.

E tutto ciò avviene in un continente in cui la spinta all’unità d’intenti resta precaria e ostacolata dal persistere di una dipendenza economica da schemi di tipo coloniale, cioè dalle esportazioni di materie prime e da monocolture destinate soprattutto ai consumi del nord ricco del mondo.

Ne consegue che anche gli aumenti di prodotto interno lordo non si traducono in effettivi benefici sociali. In un rapporto pubblicato nei giorni scorsi sempre ad Addis Abeba, gli esperti della Commissione economica dell’Onu per l’Africa ammoniscono che alla prevista e accentuata crescita economica del continente nel 2011 rispetto al biennio precedente non corrisponderà un aumentato sviluppo sociale.

In un tale contesto, l’importanza di questo XVI vertice ordinario dell’organizzazione panafricana va dunque oltre le questioni contingenti e si proietta nel futuro a medio termine, con la necessità di trovare strade comuni per colmare i ritardi sugli obiettivi di sviluppo. Non a caso, infatti, il vertice è convocato sul tema: «Valori condivisi per una più grande unità e integrazione».

Di strumenti concreti per raggiungere tale obiettivo — soprattutto di finanziamenti a progetti e programmi — si sono occupati i lavori preparatori che hanno impegnato in settimana il comitato dei rappresentanti permanenti.

Tra i punti in agenda c’è l’esame del bilancio 2011-2012 della Commissione esecutiva dell’Unione africana, guidata da Jean Ping. Sulla fonte dei previsti finanziamenti di circa 258 milioni di dollari permane incertezza. La Commissione dovrà puntare sempre più su risorse interne africane, data la crescente reticenza dei partner esteri a sbloccare ulteriori fondi a suo favore. Ma finora nessun consenso tra i Paesi membri è stato raggiunto sulla loro provenienza, per esempio con nuove tassazioni di settori economici redditizi, come le esportazioni petrolifere o le entrate del turismo.

Né più consenso c'è sul terreno di applicazione degli investimenti, cioè sulla direzione dello sviluppo. Accordi in questo senso tra tutti i Paesi finora sono sostanzialmente mancati, sia per le perduranti e vaste differenze tra le varie realtà africane, sia per scarsità di efficaci leadership politiche continentali o almeno macroregionali, sia per l’interesse delle grandi potenze tradizionali e di quelle emergenti a conservare, consolidare o instaurare proprie aree di influenza, piuttosto che cercare una cooperazione globale con l’Africa, favorendone e sostenendone il processo di integrazione.

L'Osservatore Romano, domenica 30 gennaio 2011