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La cattura di Goran HadŽić

La cattura di Goran HadŽić - Pierluigi Natalia

Più nessun

 

processo

 

in sospeso

 

per l’ex Jugoslavia

di Pierluigi Natalia
Con la consegna di Goran Hadžić al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja per l’ex Jugoslavia si è conclusa la lunga fase della ricerca dei criminali di guerra latitanti. Ora la giustizia internazionale non corre più il rischio di lasciare processi in sospeso e può dire parole conclusive, almeno sul piano del diritto, su una delle pagine più oscure della storia europea.

Hadžić, leader dei serbi della Croazia e presidente dell’effimera repubblica della Krajina negli anni del conflitto (1991-1995) era infatti l’ultimo dei 161 incriminati dal Tpi a non essere stato ancora consegnato alla giustizia internazionale. In particolare, era uno dei tre superlatitanti — insieme ai serbi bosniaci Radovan Karadžić e Ratko Mladić — la cui mancata cattura aveva per anni ostacolato il processo di avvicinamento della Serbia all’Unione europea e, più in generale la normalizzazione dei Balcani.

La cattura di Hadžić è stata infatti subito definita «un ulteriore importante passo» nel percorso per l’ingresso della Serbia nell’Unione europea in una nota congiunta del presidente della Commissione europea, José Manuel Durão Barroso, del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e dell’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Catherine Ashton.

Ma è il concetto stesso di giustizia internazionale a uscire rafforzato. Non a caso, il primo apprezzamento per la cattura di Hadžić è arrivato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che si è congratulato con il presidente serbo Boris Tadić e con le autorità di Belgrado «per la loro leadership e per aver posto fine all’impunità di quanti sono accusati di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario». Anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha rilevato che la cattura di Hadžić consente di chiudere «uno dei capitoli più dolorosi della recente storia europea». Rasmussen ha poi lodato il passo intrapreso dalle autorità serbe per rispettare i loro obblighi internazionali. «Il futuro della Serbia si basa sulla costruttiva cooperazione con i suoi vicini e con la famiglia euroatlantica», ha detto il segretario dell’Alleanza atlantica, assicurando che questa resta impegnata ad assistere la regione dei Balcani occidentali sulla sua strada verso questa integrazione.

In effetti, la cattura di Hadžić, che segue di poche settimane quella di Mladić — dopo che già tre anni fa era stato arrestato Karadžić — è anche un successo sul piano interno del presidente Tadić, che della cooperazione con il Tpi ha fatto una delle chiavi della sua politica, battendosi senza incertezze contro perduranti sentimenti di esasperato nazionalismo e contro le forze politiche che li cavalcano. «Abbiamo chiuso una pagina macabra della nostra storia», ha detto Tadić. «Ora vediamo se i nostri interlocutori europei faranno quello che hanno promesso», ha aggiunto, riferendosi alle aspettative di Belgrado, che spera di ottenere entro l’anno lo status di Paese candidato e una data d’inizio del negoziato di adesione alla Ue.

Il Governo serbo ha inoltre rimarcato che pur avendo arrestato tutti i criminali di guerra, come richiesto dalla giustizia internazionale, continuerà a collaborare con il Tpi per quanto riguarda l’accesso agli archivi e a tutta la documentazione necessaria. Fonti di Belgrado hanno precisato che sono giunte dall’Aja oltre tremila richieste di assistenza alle quali è stata data una risposta esauriente. Anche questo è rilevante per il Tpi, istituito diciotto anni fa, e che ora, come detto, non ha più processi a rischio di restare in sospeso. Tutti gli imputati, infatti, o sono morti o devono rispondere alle accuse.

(©L'Osservatore Romano  24 luglio  2011)

Il Sud Sudan proclama l'indipendenza

Il Sud Sudan  proclama l'indipendenza - Pierluigi Natalia

Nascita

(complicata)

di una nazione



Di Pierluigi Natalia
Se la nascita di una Nazione dovesse essere paragonata a quella di un essere umano, nel caso del Sud Sudan si potrebbe  parlare di un parto con complicazioni, anche se le prospettive di sopravvivenza del nascituro restano buone. E infatti le popolazioni locali guardano  all’appuntamento  di questo sabato 9 luglio — data ufficiale della proclamazione dell’indipendenza —  con una fiducia e con un entusiasmo genuini,  ai quali danno voce numerosi rappresentanti della società civile  e della comunità ecclesiale.
Tuttavia, le complicazioni della secessione restano, come dimostra la probabile proroga della missione dei caschi blu dell’Onu nella tormentata zona di confine tra Sudan e Sud Sudan, dove i recenti scontri nel Kordofan meridionale testimoniano  un persistente clima di tensione. La  prospettiva è emersa  dai colloqui del Segretario generale Ban Ki-moon, che ha fatto tappa a Khartoum, prima di recarsi nella capitale sudsudanese  Juba per presenziare alla  proclamazione dell’indipendenza.
Né a fugare i dubbi degli osservatori basta l’annunciata presenza a tale cerimonia del presidente sudanese Omar Hassam el Bashir.  Restano infatti irrisolti i principali contrasti,   dall’attribuzione della regione petrolifera dell’Abyei,  tuttora contesa tra i due Stati,  alla delimitazione dei confini,  dalla suddivisione  del debito pubblico  a quella, soprattutto, dei guadagni delle  risorse petrolifere.
Il petrolio è concentrato in gran parte nelle regioni meridionali — oltre appunto che nell’Abyei — e il Governo di Khartoum non intende rinunciare a una  sua quota di proprietà,  sostenendo che ciò prevede l'accordo di pace del 9 gennaio 2005, che pose fine all’ultraventennale conflitto civile. Le  autorità di Juba intendono  invece gestire in proprio le perforazioni, limitandosi a pagare a Khartoum l'uso degli oleodotti e delle raffinerie. A una simile posizione non sono estranee le proposte delle compagnie petrolifere multinazionali, da sempre interessate al petrolio sudanese.
Nei giorni scorsi, lo stesso el Bashir e il presidente sudanese Salva Kiir Mayardit hanno partecipato a una riunione ad Addis Abeba promossa dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo in Africa (Igad) — che a suo tempo aveva mediato l’accordo del 2005 — senza riuscire a dirimere le questioni ancora aperte. L’Igad si è dichiarata soddisfatta  della promessa   di  proseguire i negoziati anche dopo il 9 luglio, ma molti osservatori non nascondono  delusione e inquietudine per essere arrivati  alla separazione  senza aver prima sciolto tutti i nodi, come le  parti si erano impegnate a fare.
Sull’esito finale dei negoziati si possono fare solo ipotesi, ma proprio il persistere dei contrasti potrebbe spingere il nascituro 54° Stato del continente, finora dipendente quasi in tutto da Khartoum,   a cercare  altre alleanze e  una diversa collocazione internazionale.
Una buona incubatrice potrebbe essere  la Comunità dell'Africa orientale (Eac, nell’acronimo in inglese), che comprende  Burundi,  Kenya, Rwanda, Tanzania e Uganda. Alla prospettiva che il  Sud Sudan possa  diventarne presto il sesto  Stato membro si guarda con palese favore soprattutto in Kenya. Qui molti commentatori ricordano che  il dovere morale di sostenere lo sviluppo di un Paese vicino devastato dalla guerra si sposa con interessi sia di sicurezza sia  economici,  dato che Nairobi e l’Eac in generale vi troverebbero buone   opportunità di investimenti. Del resto, già ora società kenyane gestiscono buona parte dei servizi in Sud Sudan,  soprattutto trasporti e  importazione di prodotti agricoli. Così come sono kenyane le banche che vi hanno aperto le principali linee di credito, come la Kenya Commercial Bank o l’Equity Bank.
A questo si aggiungono  legami storici  consolidati dall’accoglienza ottenuta in   Kenya da migliaia di rifugiati sudsudanesi all’epoca del conflitto. Tra l’altro,  molti di loro  hanno potuto studiare nel Paese ospitante e ora potrebbero diventare  nel nuovo Stato una classe   dirigente propensa  a consolidare legami tanto di amicizia quanto di vicendevole vantaggio. 
Anche in questo torna la questione del petrolio, con il progetto di affrancare il Sud Sudan dalla dipendenza dalle strutture di Khartoum. Già è prevista la costruzione di una linea ferroviaria che  collegherà il nuovo Stato all’Uganda e ai porti kenyani sull’Oceano Indiano. Un domani potrebbe affiancarla  un oleodotto, da realizzare  magari con il contributo delle compagnie petrolifere internazionali.
(©L'Osservatore Romano  9 luglio  2011)

La sesessione del Sud Sudan da Khartoum

La sesessione del Sud Sudan da Khartoum - Pierluigi Natalia


L'indipendenza

difficile





di Pierluigi Natalia
La proclamazione formale dell’indipendenza del Sud Sudan da Khartoum, , il 9 luglio, nonostante l’annunciata presenza alla cerimonia del presidente sudanese Omar Hassam el Bashir, lascia aperte molte questioni che sperava avviate a soluzione con una separazione indolore e con negoziati per definire i reciproci interessi, ma anche i comuni vantaggi della pacificazione. Ne offrono esempi i recenti scontri armati sia nel Kordofan meridionale sia nell’Abyei, la regione petrolifera tuttora contesa tra le due parti. Soprattutto l’irrisolta questione dell’Abyei minaccia di rimettere in forse le conquiste del processo di pace avviato dall’accordo del 9 gennaio 2005 che mise fine all’ultraventennale conflitto civile in Sud Sudan, uno dei più lunghi e cruenti dell’intera storia africana.

Né le tensioni riguardano solo aspetti macroscopici come l’Abyei. Da settimane, diversi dirigenti del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, formato dagli ex ribelli oggi al Governo in Sud Sudan, accusano le autorità di Khartoum di applicare una sorta di embargo sui flussi commerciali tra nord e sud che rende più difficili da sciogliere i nodi complessi dei rapporti bilaterali.

Gli ex ribelli sembrano comunque decisi a guardare a altri interlocutori, come dimostrano le misure adottate dal Governo di Juba per sostenere gli scambi con Uganda, Kenya ed Etiopia, i Paesi verso i quali il nuovo Stato, il 54° dell’Africa, potrebbe gravitare da un punto di vista economico e politico. Del resto, gli investimenti stranieri sono destinati ad avere un ruolo cruciale nello sviluppo economico e sociale del Sud Sudan, il cui bilancio annuale non supera un valore di un miliardo e mezzo di dollari, forniti al 98 per cento dalle esportazioni di greggio.

Ben più ambiziosi sono gli obiettivi dichiarati dal Governo di Juba: «Raccoglieremo cinquecento miliardi di dollari dagli investitori privati nei prossimi cinque anni per costruire questo Paese e raggiungere il resto del mondo sul piano delle infrastrutture», ha sostenuto il vice presidente sudsudanese Riek Machar, appena tornato a Juba dopo una missione di tre settimane negli Stati Uniti, durante la quale ha incontrato esponenti dell’Amministrazione del presidente Barack Obama e rappresentanti di diversi organismi dell’Onu.

Tra l’altro — in una sorta di causa comune con gli ex avversari, nonostante le persistenti diffidenze — Machar ha chiesto al Governo di Washington la rimozione delle sanzioni nei confronti di Khartoum perché, indirettamente, penalizzano le esportazioni del petrolio del Sud Sudan che attraversano il territorio sudanese. Il Sud Sudan, esteso quanto Kenya, Uganda e Tanzania messi insieme, è infatti praticamente senza strade asfaltate e incapace di raffinare ed esportare le sue grandi risorse petrolifere senza passare per gli oleodotti e per gli impianti di Khartoum.

Tuttavia, il Sud Sudan può trarre vantaggio dalla posizione geografica, al centro dell’Africa orientale, per diventare un polo di riferimento a livello regionale, sul modello di Dubai o di Singapore. A giudizio di Machar, un contributo per lo sviluppo economico del nuovo Stato oltre che dalle tradizionali grandi potenze, a partire proprio dagli Stati Uniti, potrà essere garantito dai paesi del Golfo Persico, in particolare dagli Emirati Arabi Uniti. A ottobre, proprio a Dubai si terrà una conferenza sul Sud Sudan che nelle aspettative sudsudanesi costituirà un’opportunità per tutti gli Stati del Golfo di sostenere economicamente la nuova Nazione.

Da parte sua, alla perdita del petrolio sudsudanese, Khartoum può opporre l’impegno cinese a consolidare un’amicizia tradizionale e, nell’immediato, accordi nel settore petrolifero e prestiti per la realizzazione di infrastrutture, come è emerso dalla visita condotta a Pechino a fine giugno da el Bashir. Con il presidente cinese Hu Jintao, el Bashir ha presenziato alla firma di un accordo di cooperazione nell’estrazione del gas e del petrolio sudanese tra il governo di Khartoum e la società statale China National Petroleum Corporation. Secondo il ministero degli Esteri sudanese, inoltre, durante la visita sono stati ottenuti dal Governo cinese impegni di finanziamento per centinaia di milioni di dollari. Una delle intese riguarda prestiti per la costruzione di un ponte nell’est del Sudan.
(©L'Osservatore Romano  3 luglio  2011)

L'emarginazione dei giovani africani

L'emarginazione dei giovani africani - Pierluigi Natalia


Furto

di futuro




di Pierluigi Natalia
Sul futuro dell’Africa pesano le ipoteche dell’emarginazione dei giovani e delle loro scarse prospettive di una vita serena. I ritardi e le resistenze nell’attuare politiche internazionali e locali di sviluppo sostenibile hanno conseguenze devastanti in un continente nel quale il 60 per cento degli abitanti hanno meno di trent’anni, ma sono particolarmente esposti a disoccupazione, malattie e conflitti. Tanto le rivolte di questi mesi nel Maghreb, quanto i massicci flussi migratori, giovanili e non, sono spie evidenti di questo incerto futuro del quale le giovani generazioni africane sono sempre più consapevoli, grazie anche, in molti casi, alla comunicazione globale.

Intorno a queste problematiche in Africa si stanno accentuando attenzione, riflessione e iniziative, come quelle che in diversi Paesi del continente hanno accompagnato, nei giorni scorsi, le celebrazioni della XXI Giornata del bambino africano. La Giornata fu decisa del 1990 dall’allora Organizzazione dell’unità africana, oggi Unione africana, che scelse per celebrarla la data del 16 giugno in memoria di un massacro dei bambini nella South West Township (Soweto), l’immensa baraccopoli alla periferia di Johannesburg, in Sud Africa, nel 1976, quando il regime segregazionista dell’epoca represse la rivolta di studenti che protestavano contro l’introduzione della lingua afrikaans (vicina all’olandese) al posto dell’inglese.

Il tema della giornata di quest’anno — «Tutti insieme con azioni urgenti a sostegno dei bambini di strada» — ha posto l’attenzione, in particolare, su un fenomeno determinato dal piccolo banditismo nei centri urbani in piena espansione dove rapimenti, aggressioni, violenze e furti sono all’ordine del giorno; un fenomeno che si somma a quelli dei bambini lavoratori e dei bambini soldato nel tragico totale delle violazioni dei diritti umani dei più giovani.

Per fare alcuni esempi, più di 7.800 bambini di strada, per lo più mendicanti o ragazze avviate alla prostituzione, sono stati censiti nella capitale senegalese Dakar, mentre a Kinshasa, nelle Repubblica Democratica del Congo sono oltre ottomila e nella vicina Brazzaville, nella Repubblica del Congo, sono 1.100. Si tratta di numeri di per sé indicativi, anche se talora si rischia di dimenticarli, se non altro perché inseriti nel più generale disastro continentale di povertà estrema e e di mancanza di accesso ad acqua potabile e cure mediche che provoca ogni tre secondi la morte di un bambino.

In un simile contesto, serve la consapevolezza delle famiglie e comunità locali sul dovere di assumere le proprie responsabilità per la tutela dei più piccoli, ma serve soprattutto che i poteri pubblici proteggano la salute e i diritti dei bambini e dei ragazzi, in particolare sostenendone il percorso scolastico anche in realtà difficili di crisi economica, di espansione urbanistica incontrollata e di crescita demografica. La Giornata è stata quindi occasione per sollecitare interventi di reinserimento dei bambini di strada nelle famiglie e nella società, nella convinzione che proprio le nuove generazioni devono essere la priorità di ogni intervento.

(©L'Osservatore Romano 26 giugno  2011)

Le crisi in Sudan e in Somalia

Le crisi in Sudan e in Somalia - Pierluigi Natalia

La difficile estate

africana


di Pierluigi Natalia
Quella ormai imminente si annuncia un’estate  cruciale per alcune tra le principali aree di irrisolte crisi dell’Africa, soprattutto nelle regioni orientali del continente.  Incertezza e inquietudine suscitano gli sviluppi  nei teatri di crisi sudanesi,  sia nella regione occidentale del Darfur,   sia soprattutto nello scacchiere meridionale, in vista del prossimo 8 luglio, data fissata per la proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan decisa nel referendum dello scorso gennaio. Per il Darfur  ristagnano i colloqui di pace, mentre brusche e ripetute recrudescenze di combattimenti mettono continuamente in pericolo una popolazione in gran parte costituita da sfollati. Nelle regioni petrolifere meridionali,  sia nel Kordofan appartenente al Sudan, sia nell’Abyei tuttora contesa tra Khartoum e Juba, il conto alla rovescia verso l’8 luglio è scandito più dalle violenze che dal progresso dei negoziati. Né sembrano per ora trovare ascolto gli appelli internazionali al cessate il fuoco, ultimo quello lanciato in queste ore dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riguardo appunto agli scontri in atto nel Kordofan. 
In Somalia,  già in giugno sono attese decisioni importanti per gli assetti politici interni alle istituzioni internazionalmente riconosciute,  ammesso che la stessa parola politica possa conservare un qualche significato nel contesto spaventoso di guerra civile e di estrema povertà che schiaccia da oltre vent’anni un Paese con metà della popolazione costituita da profughi. C’è attesa, comunque, per le decisioni del Parlamento somalo, chiamato a pronunciarsi  sull’accordo  firmato all’inizio del mese a  Kampala dai protagonisti dell’ultima crisi interna alle fragili istituzioni somale, il  presidente della Repubblica Sharif Ahmed e il presidente del Parlamento, Sharif Hassam, dopo una mediazione del presidente ugandese Yoweri Museveni.
L’accordo in questione, peraltro,  non sembra aver stemperato le tensioni né raffreddato il dibattito. Oltre a prorogare di un anno il periodo di transizione deciso a Gibuti nel 2008, l’accordo prevede entro questo mese  le dimissioni del primo ministro Mohammed Abdulahi Mohammed, meglio conosciuto come Farmajo,  e del suo Governo.  Tuttavia, tale annuncio ha già causato nei giorni scorsi disordini e manifestazioni a sostegno di Farmajo a Mogadiscio,  conclusi con due vittime tra i dimostranti.
Da parte sua, Farmajo ha già detto di non essere intenzionato a dimettersi e sembra porsi come ulteriore protagonista della partita politica. «Rispetterò la volontà del popolo somalo che chiede che io resti, piuttosto che quella dei burocrati di Kampala»,  ha affermato il primo ministro pur aggiungendo di essere comunque intenzionato ad attendere il responso del Parlamento, chiamato a promulgare l’accordo nei prossimi giorni. Ciò nonostante, diversi osservatori sottolineano che il primo ministro più che sulle procedure istituzionali concentra l’attenzione sulla piazza e sul  sostegno popolare, soprattutto nella capitale:  «La volontà del popolo va rispettata, come pure il suo diritto a manifestare i suoi sentimenti»,  ha detto,  in riferimento alle manifestazioni di protesta che hanno accolto a Mogadiscio l’annuncio dell’intesa tra Ahmed e Hassam.
In questo clima  c’è stato nei giorni scorsi anche l’assassinio del  ministro dell’Interno Abdishakour  Hassan, vittima di un’attentatrice suicida — sembra una sua nipote —  che si è introdotta nella sua casa e si è fatta saltare in aria. Identità dell’attentatrice a parte, l’assassinio del ministro è stato rivendicato dalle milizie radicali islamiche di al Shabaab, che guidano l’insurrezione.
Due giorni prima, in un conflitto a fuoco a un posto di blocco a Mogadiscio, era stato ucciso  Fazul Abdullah Mohammed, il capo dell’organizzazione terroristica internazionale  Al Qaeda nell’Africa Orientale, originario delle Comore e considerato l’ispiratore e l’organizzatore delle stragi nelle ambasciate statunitensi a  Dar es Salaam e a Nairobi del 1998. Pur senza mettere in relazione diretta i due episodi, alcuni osservatori hanno rimarcato che l’identità del terrorista, confermata ufficialmente solo alcuni giorni dopo, era subito stata annunciata da al Shabaab, delle cui milizie era tanto finanziatore quanto addestratore,  con l’annuncio di una pronta vendetta.

(©L'Osservatore Romano 16 giugno  2011)