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La sesessione del Sud Sudan da Khartoum

La sesessione del Sud Sudan da Khartoum - Pierluigi Natalia


L'indipendenza

difficile





di Pierluigi Natalia
La proclamazione formale dell’indipendenza del Sud Sudan da Khartoum, , il 9 luglio, nonostante l’annunciata presenza alla cerimonia del presidente sudanese Omar Hassam el Bashir, lascia aperte molte questioni che sperava avviate a soluzione con una separazione indolore e con negoziati per definire i reciproci interessi, ma anche i comuni vantaggi della pacificazione. Ne offrono esempi i recenti scontri armati sia nel Kordofan meridionale sia nell’Abyei, la regione petrolifera tuttora contesa tra le due parti. Soprattutto l’irrisolta questione dell’Abyei minaccia di rimettere in forse le conquiste del processo di pace avviato dall’accordo del 9 gennaio 2005 che mise fine all’ultraventennale conflitto civile in Sud Sudan, uno dei più lunghi e cruenti dell’intera storia africana.

Né le tensioni riguardano solo aspetti macroscopici come l’Abyei. Da settimane, diversi dirigenti del Movimento per la liberazione del popolo sudanese, formato dagli ex ribelli oggi al Governo in Sud Sudan, accusano le autorità di Khartoum di applicare una sorta di embargo sui flussi commerciali tra nord e sud che rende più difficili da sciogliere i nodi complessi dei rapporti bilaterali.

Gli ex ribelli sembrano comunque decisi a guardare a altri interlocutori, come dimostrano le misure adottate dal Governo di Juba per sostenere gli scambi con Uganda, Kenya ed Etiopia, i Paesi verso i quali il nuovo Stato, il 54° dell’Africa, potrebbe gravitare da un punto di vista economico e politico. Del resto, gli investimenti stranieri sono destinati ad avere un ruolo cruciale nello sviluppo economico e sociale del Sud Sudan, il cui bilancio annuale non supera un valore di un miliardo e mezzo di dollari, forniti al 98 per cento dalle esportazioni di greggio.

Ben più ambiziosi sono gli obiettivi dichiarati dal Governo di Juba: «Raccoglieremo cinquecento miliardi di dollari dagli investitori privati nei prossimi cinque anni per costruire questo Paese e raggiungere il resto del mondo sul piano delle infrastrutture», ha sostenuto il vice presidente sudsudanese Riek Machar, appena tornato a Juba dopo una missione di tre settimane negli Stati Uniti, durante la quale ha incontrato esponenti dell’Amministrazione del presidente Barack Obama e rappresentanti di diversi organismi dell’Onu.

Tra l’altro — in una sorta di causa comune con gli ex avversari, nonostante le persistenti diffidenze — Machar ha chiesto al Governo di Washington la rimozione delle sanzioni nei confronti di Khartoum perché, indirettamente, penalizzano le esportazioni del petrolio del Sud Sudan che attraversano il territorio sudanese. Il Sud Sudan, esteso quanto Kenya, Uganda e Tanzania messi insieme, è infatti praticamente senza strade asfaltate e incapace di raffinare ed esportare le sue grandi risorse petrolifere senza passare per gli oleodotti e per gli impianti di Khartoum.

Tuttavia, il Sud Sudan può trarre vantaggio dalla posizione geografica, al centro dell’Africa orientale, per diventare un polo di riferimento a livello regionale, sul modello di Dubai o di Singapore. A giudizio di Machar, un contributo per lo sviluppo economico del nuovo Stato oltre che dalle tradizionali grandi potenze, a partire proprio dagli Stati Uniti, potrà essere garantito dai paesi del Golfo Persico, in particolare dagli Emirati Arabi Uniti. A ottobre, proprio a Dubai si terrà una conferenza sul Sud Sudan che nelle aspettative sudsudanesi costituirà un’opportunità per tutti gli Stati del Golfo di sostenere economicamente la nuova Nazione.

Da parte sua, alla perdita del petrolio sudsudanese, Khartoum può opporre l’impegno cinese a consolidare un’amicizia tradizionale e, nell’immediato, accordi nel settore petrolifero e prestiti per la realizzazione di infrastrutture, come è emerso dalla visita condotta a Pechino a fine giugno da el Bashir. Con il presidente cinese Hu Jintao, el Bashir ha presenziato alla firma di un accordo di cooperazione nell’estrazione del gas e del petrolio sudanese tra il governo di Khartoum e la società statale China National Petroleum Corporation. Secondo il ministero degli Esteri sudanese, inoltre, durante la visita sono stati ottenuti dal Governo cinese impegni di finanziamento per centinaia di milioni di dollari. Una delle intese riguarda prestiti per la costruzione di un ponte nell’est del Sudan.
(©L'Osservatore Romano  3 luglio  2011)

L'emarginazione dei giovani africani

L'emarginazione dei giovani africani - Pierluigi Natalia


Furto

di futuro




di Pierluigi Natalia
Sul futuro dell’Africa pesano le ipoteche dell’emarginazione dei giovani e delle loro scarse prospettive di una vita serena. I ritardi e le resistenze nell’attuare politiche internazionali e locali di sviluppo sostenibile hanno conseguenze devastanti in un continente nel quale il 60 per cento degli abitanti hanno meno di trent’anni, ma sono particolarmente esposti a disoccupazione, malattie e conflitti. Tanto le rivolte di questi mesi nel Maghreb, quanto i massicci flussi migratori, giovanili e non, sono spie evidenti di questo incerto futuro del quale le giovani generazioni africane sono sempre più consapevoli, grazie anche, in molti casi, alla comunicazione globale.

Intorno a queste problematiche in Africa si stanno accentuando attenzione, riflessione e iniziative, come quelle che in diversi Paesi del continente hanno accompagnato, nei giorni scorsi, le celebrazioni della XXI Giornata del bambino africano. La Giornata fu decisa del 1990 dall’allora Organizzazione dell’unità africana, oggi Unione africana, che scelse per celebrarla la data del 16 giugno in memoria di un massacro dei bambini nella South West Township (Soweto), l’immensa baraccopoli alla periferia di Johannesburg, in Sud Africa, nel 1976, quando il regime segregazionista dell’epoca represse la rivolta di studenti che protestavano contro l’introduzione della lingua afrikaans (vicina all’olandese) al posto dell’inglese.

Il tema della giornata di quest’anno — «Tutti insieme con azioni urgenti a sostegno dei bambini di strada» — ha posto l’attenzione, in particolare, su un fenomeno determinato dal piccolo banditismo nei centri urbani in piena espansione dove rapimenti, aggressioni, violenze e furti sono all’ordine del giorno; un fenomeno che si somma a quelli dei bambini lavoratori e dei bambini soldato nel tragico totale delle violazioni dei diritti umani dei più giovani.

Per fare alcuni esempi, più di 7.800 bambini di strada, per lo più mendicanti o ragazze avviate alla prostituzione, sono stati censiti nella capitale senegalese Dakar, mentre a Kinshasa, nelle Repubblica Democratica del Congo sono oltre ottomila e nella vicina Brazzaville, nella Repubblica del Congo, sono 1.100. Si tratta di numeri di per sé indicativi, anche se talora si rischia di dimenticarli, se non altro perché inseriti nel più generale disastro continentale di povertà estrema e e di mancanza di accesso ad acqua potabile e cure mediche che provoca ogni tre secondi la morte di un bambino.

In un simile contesto, serve la consapevolezza delle famiglie e comunità locali sul dovere di assumere le proprie responsabilità per la tutela dei più piccoli, ma serve soprattutto che i poteri pubblici proteggano la salute e i diritti dei bambini e dei ragazzi, in particolare sostenendone il percorso scolastico anche in realtà difficili di crisi economica, di espansione urbanistica incontrollata e di crescita demografica. La Giornata è stata quindi occasione per sollecitare interventi di reinserimento dei bambini di strada nelle famiglie e nella società, nella convinzione che proprio le nuove generazioni devono essere la priorità di ogni intervento.

(©L'Osservatore Romano 26 giugno  2011)

Le crisi in Sudan e in Somalia

Le crisi in Sudan e in Somalia - Pierluigi Natalia

La difficile estate

africana


di Pierluigi Natalia
Quella ormai imminente si annuncia un’estate  cruciale per alcune tra le principali aree di irrisolte crisi dell’Africa, soprattutto nelle regioni orientali del continente.  Incertezza e inquietudine suscitano gli sviluppi  nei teatri di crisi sudanesi,  sia nella regione occidentale del Darfur,   sia soprattutto nello scacchiere meridionale, in vista del prossimo 8 luglio, data fissata per la proclamazione dell’indipendenza del Sud Sudan decisa nel referendum dello scorso gennaio. Per il Darfur  ristagnano i colloqui di pace, mentre brusche e ripetute recrudescenze di combattimenti mettono continuamente in pericolo una popolazione in gran parte costituita da sfollati. Nelle regioni petrolifere meridionali,  sia nel Kordofan appartenente al Sudan, sia nell’Abyei tuttora contesa tra Khartoum e Juba, il conto alla rovescia verso l’8 luglio è scandito più dalle violenze che dal progresso dei negoziati. Né sembrano per ora trovare ascolto gli appelli internazionali al cessate il fuoco, ultimo quello lanciato in queste ore dal presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, riguardo appunto agli scontri in atto nel Kordofan. 
In Somalia,  già in giugno sono attese decisioni importanti per gli assetti politici interni alle istituzioni internazionalmente riconosciute,  ammesso che la stessa parola politica possa conservare un qualche significato nel contesto spaventoso di guerra civile e di estrema povertà che schiaccia da oltre vent’anni un Paese con metà della popolazione costituita da profughi. C’è attesa, comunque, per le decisioni del Parlamento somalo, chiamato a pronunciarsi  sull’accordo  firmato all’inizio del mese a  Kampala dai protagonisti dell’ultima crisi interna alle fragili istituzioni somale, il  presidente della Repubblica Sharif Ahmed e il presidente del Parlamento, Sharif Hassam, dopo una mediazione del presidente ugandese Yoweri Museveni.
L’accordo in questione, peraltro,  non sembra aver stemperato le tensioni né raffreddato il dibattito. Oltre a prorogare di un anno il periodo di transizione deciso a Gibuti nel 2008, l’accordo prevede entro questo mese  le dimissioni del primo ministro Mohammed Abdulahi Mohammed, meglio conosciuto come Farmajo,  e del suo Governo.  Tuttavia, tale annuncio ha già causato nei giorni scorsi disordini e manifestazioni a sostegno di Farmajo a Mogadiscio,  conclusi con due vittime tra i dimostranti.
Da parte sua, Farmajo ha già detto di non essere intenzionato a dimettersi e sembra porsi come ulteriore protagonista della partita politica. «Rispetterò la volontà del popolo somalo che chiede che io resti, piuttosto che quella dei burocrati di Kampala»,  ha affermato il primo ministro pur aggiungendo di essere comunque intenzionato ad attendere il responso del Parlamento, chiamato a promulgare l’accordo nei prossimi giorni. Ciò nonostante, diversi osservatori sottolineano che il primo ministro più che sulle procedure istituzionali concentra l’attenzione sulla piazza e sul  sostegno popolare, soprattutto nella capitale:  «La volontà del popolo va rispettata, come pure il suo diritto a manifestare i suoi sentimenti»,  ha detto,  in riferimento alle manifestazioni di protesta che hanno accolto a Mogadiscio l’annuncio dell’intesa tra Ahmed e Hassam.
In questo clima  c’è stato nei giorni scorsi anche l’assassinio del  ministro dell’Interno Abdishakour  Hassan, vittima di un’attentatrice suicida — sembra una sua nipote —  che si è introdotta nella sua casa e si è fatta saltare in aria. Identità dell’attentatrice a parte, l’assassinio del ministro è stato rivendicato dalle milizie radicali islamiche di al Shabaab, che guidano l’insurrezione.
Due giorni prima, in un conflitto a fuoco a un posto di blocco a Mogadiscio, era stato ucciso  Fazul Abdullah Mohammed, il capo dell’organizzazione terroristica internazionale  Al Qaeda nell’Africa Orientale, originario delle Comore e considerato l’ispiratore e l’organizzatore delle stragi nelle ambasciate statunitensi a  Dar es Salaam e a Nairobi del 1998. Pur senza mettere in relazione diretta i due episodi, alcuni osservatori hanno rimarcato che l’identità del terrorista, confermata ufficialmente solo alcuni giorni dopo, era subito stata annunciata da al Shabaab, delle cui milizie era tanto finanziatore quanto addestratore,  con l’annuncio di una pronta vendetta.

(©L'Osservatore Romano 16 giugno  2011)

Le crisi a sud del Sahara

Le crisi a sud del Sahara - Pierluigi Natalia




L’Africa

dimenticata



Di Pierluigi Natalia
All’attenzione delle organizzazioni internazionali e delle opinioni pubbliche di tutto il mondo sui fenomeni di cambiamento e di rivolta in atto nel Maghreb, oltre che in altre regioni del mondo arabo, continua a fare riscontro un sostanziale attendismo, se non una vera incuria, sulle situazioni in atto nel resto dell’Africa, quella subsahariana. Eppure anche queste potrebbero a loro volta prospettare — e in ogni caso richiederebbero — cambiamenti profondi. Non vi mancano, infatti, regimi simili a quelli che il vento del Maghreb sta facendo vacillare, né popolazioni altrettanto in attesa di un futuro diverso.

Ma per l’Africa subsahariana è un futuro ancora più difficile da costruire. Se nelle rivolte maghrebine c’è un aspetto di novità indiscutibile — basti pensare agli strumenti della modernità, come internet o la telefonia cellulare, usati come mezzi di comunicazione, autoconvocazione e confronto — e un chiaro protagonismo di una generazione emergente, nell’Africa nera c’è soprattutto una continua recrudescenza di irrisolti e pluridecennali problemi, che travolgono una generazione dopo l’altra. Vale per il Sahel come per l’Africa occidentale, per i Grandi Laghi come per il Corno d’Africa. Vale per le tante guerre dimenticate dell’Africa, così come per le emergenze umanitarie che si protraggono e incancreniscono nel continente.

Ne offre un esempio quanto accaduto proprio in questi giorni con l’intervento armato di Khartoum nella regione petrolifere dell’Abyei, un intervento che rimette in forse uno dei principali processi di pace in Africa, quello avviato dall’accordo del 9 gennaio 2005 che mise fine all’ultraventennale conflitto civile in Sud Sudan.

Così come la pacificazione resta difficile in Costa d’Avorio, di nuovo travolta negli ultimi mesi da rigurgiti di guerra civile, mentre fenomeni analoghi, seppure più contenuti, si registrano in Nigeria come in Niger, in Guinea come in Burkina Faso, nella Repubblica Democratica del Congo come in Kenya, nello Zimbabwe come nel Madagascar, e l’elenco potrebbe continuare. Per non parlare del Corno d’Africa, dove all’irrisolta tragedia che si protrae in Somalia da oltre vent’anni si affianca la ciclica recrudescenza delle tensioni tra Etiopia ed Eritrea, già in passato sfociate in conflitti armati.

Tra gli elementi comuni di tutte queste situazioni — soprattutto economici, ma anche di tipo etnico e sociale, quando non religioso — hanno un ruolo anche gli interessi stranieri, sia dei Paesi ex coloniali, sia delle potenze tradizionali come gli Stati Uniti o la Russia, sia dei Paesi emergenti, come la Cina o l’India. A veri mutamenti e a una vera stagione di sviluppo africano si oppone, cioè, anche l’interesse delle grandi potenze del mondo, economiche e politiche, che in Africa mantengono atteggiamenti di fatto neocolonialisti, piuttosto che reimpostare i rapporti su una cooperazione paritaria e mutualmente vantaggiosa, se non altro perché faciliterebbe lo sviluppo democratico e quindi in ultima analisi la pace e la sicurezza.

Ma attribuire la responsabilità dei ritardi africani solo a vecchi schemi sarebbe fuorviante. Anche gli osservatori più attenti e meglio disposti a spendersi per la causa dei popoli africani non possono ignorare che nel continente più devastato sono soprattutto i potentati locali a rimettere continuamente in forse i processi di pace avviati e a lasciare inattuati tutti gli impegni a promuovere forme di sviluppo sostenibile e socialmente indirizzato.

Al tempo stesso, la via della mobilitazione dei cittadini per difendere la propria libertà non trova ancora a sud del Sahara il modo di esprimersi e quindi di consolidare le democrazie del continente perennemente in crisi. Non può meravigliare, quindi, che mentre il mondo arabo è in piena trasformazione, proprio perché sottoposto alle pressioni delle piazze, nell’Africa subsahariana quello verso un futuro diverso resti un cammino in salita.

(©L'Osservatore Romano 1 giugno  2011)

L'arresto di Ratko Mladiĉ

L'arresto di Ratko Mladiĉ - Pierluigi Natalia


Pagine

nuove

per l'ex Jugoslavia



Di Pierluigi Natalia
L’arresto di Ratko Mladić, responsabile del massacro, nel luglio del 1995, di oltre ottomila civili bosniaci musulmani a Srebrenica, nel più spaventoso episodio di pulizia etnica del conflitto bosniaco, segna un successo tanto della giustizia internazionale quanto del Governo del presidente serbo Boris Tadić, impegnato a condurre il Paese sulla strada dell’adesione all’Unione europea.

Proprio la cattura dei principali latitanti ricercati dal Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja per l’ex Jugoslavia è da sempre, infatti, una delle condizioni poste dall’Unione europea alla Serbia per tale obiettivo. Dopo l’arresto, tre anni fa, dell’ex leader serbo bosniaco Radovan Karadžić, già sotto processo davanti Tpi, e quello di Mladić, che all’Aja sarà estradato non appena completare le procedure di legge, l’ultimo grande ricercato ancora latitante è Goran Hadžić, l’ex leader politico dei serbi di Croazia. Tadić ha promesso che, oltre a Hadžić, saranno arrestati anche i leader della criminalità organizzata in Serbia, con un’affermazione che ha valenza tanto interna quanto internazionale, soprattutto perché legata all’annuncio di un’inchiesta per scoprire chi abbia aiutato e coperto Mladić e gli altri criminali di guerra durante la latitanza. Tra l’altro, Tadić ha anche chiesto una commissione sotto mandato Onu che indaghi sul l’ultimo orrore imputato a Mladić, cioè un traffico d’organi in Kosovo.

Secondo Tadić, l’arresto di Mladić non solo «lava un’onta» e rappresenta una svolta per le aspirazioni di Belgrado per l’ingresso nell’Unione europea, ma «spiana la strada alla riconciliazione» del Paese. La convinzione che ci sia unità d’intenti tra la giustizia internazionale e le azioni governative potrà infatti da un lato facilitare il progressivo processo di integrazione europea dei Paesi dell’ex Jugoslavia, e dall’altro frenare le tentazioni di sentirsi vittime di comportamenti internazionali vessatori.

L’arresto di Mladić è anche una risposta di fatto alle critiche mosse a Belgrado ancora in questi giorni dal procuratore del Tpi, Serge Brammertz, il quale, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, aveva sostenuto che «finora gli sforzi della Serbia di arrestare i fuggitivi non sono stati sufficienti». Ora, la giustizia internazionale e l’azione interna possono concorre a un medesimo obiettivo, quello di chiudere, garantendo i diritti delle vittime, la pagina tragica dei conflitti nell’ex Jugoslavia.

(©L'Osservatore Romano 28 maggio 2011)