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Iniziative per il disarmo

Iniziative per il disarmo - Pierluigi Natalia

La Santa Sede

e la questione

nucleare





Di  Pierluigi Natalia
L’impegno a promuovere e a sostenere ogni possibile iniziativa volta a favorire il disarmo nucleare è da sempre una costante del magistero pontificio e dell’azione diplomatica della Santa Sede. Da oltre sessant’anni — dopo quel 6 agosto 1945 che segnò tragicamente, con il bombardamento atomico di Hiroshima, l’inizio della cosiddetta era nucleare — la Chiesa si occupa, nel suo ruolo irrinunciabile di testimonianza del valore della pace, di queste armi, della loro legalità e delle implicazioni morali connesse alla loro produzione, al loro dispiegamento e al loro progettato uso. Di recente, intervenendo a un seminario internazionale organizzato dal Catholic Center della diocesi statunitense di Kansas City-St. Joseph, l’arcivescovo Francis Chullikatt, osservatore permanente della Santa Sede alle Nazioni Unite, ha fatto una disamina approfondita di quest’azione della Chiesa e dello stato attuale del processo di disarmo nucleare.

La base del suo ragionamento è che la questione ha implicazioni tanto morali, quanto politiche e di diritto internazionale, in un mondo in cui i quattro quinti dell’umanità vivono in condizioni almeno di indigenza e in cui oltre la metà della popolazione abita Paesi in cui si trovano armi atomiche — più di 20.000 in tutto — e che spendono complessivamente oltre cento miliardi di dollari annui per mantenere e rinnovare i propri arsenali. Sotto l’aspetto del diritto internazionale, particolare rilievo ha il rispetto o meno del principio della buona fede, il che significa essenzialmente rispettare gli accordi non solo sul piano formale, ma anche in modo fedele ai loro scopi. Significa cioè che le Nazioni sono chiamate a collaborare, in modo sincero e cooperativo, nei negoziati e soprattutto nell’attuazione degli accordi sottoscritti, per mirare al raggiungimento degli obiettivi concordati. Ma proprio questo è uno dei punti dolenti, come ha ricordato l’arcivescovo Chullikatt, dato che l’attuale rinnovamento della forza nucleare e delle infrastrutture tecniche a essa collegate suscita non pochi dubbi riguardo a tale buona fede e rende difficile raggiungere il disarmo nucleare globale attraverso negoziati.

Nell’esaminare la lunga vicenda seguita a Hiroshima, l’arcivescovo Chullikatt ha trattato ovviamente della questione della deterrenza nucleare, sulla quale almeno fino agli anni Ottanta si è dipanata una vera e propria dottrina politica. Ma già a partire dalla Gaudium et spes, il documento conciliare che costituisce la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo — che pure all’accumulo di armi «come deterrente contro un possibile attacco nemico» fa riferimento — è espressa chiaramente la condanna fondamentale di qualsiasi uso di armi nucleari, in quanto «ogni atto di guerra, che mira indiscriminatamente alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e va condannato con fermezza e senza esitazione» (Gaudium et spes, n. 80).

E nel 1982, nel punto massimo di accumulo di armi nucleari statunitensi e sovietiche, il rifiuto della deterrenza nucleare come politica a sé stante e permanente emergeva chiaramente dal messaggio rivolto da Giovanni Paolo II alla seconda sessione speciale dell’Onu sul disarmo. Del resto, il Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp), sottoscritto dalla Santa Sede nel 1971, prevede da parte delle Nazioni non dotate di armi atomiche di astenersi dal loro sviluppo, in cambio dell’impegno di quelle che le hanno a eliminare i loro arsenali. Nel 2005, nella quinquennale conferenza di revisione del Tnp, che appariva sull’orlo del collasso, la Santa Sede ribadiva di non aver mai considerato la deterrenza come una misura permanente, visto che essa tende a favorire lo sviluppo di armi atomiche sempre più nuove e più costose, impedendo un vero disarmo.

Nel messaggio della successiva Giornata mondiale della Pace del 2006, lo stesso Benedetto XVI definiva del tutto fallace, oltre che funesta, la posizione di quei Governi che contano sulle armi nucleari per garantire la sicurezza dei loro Paesi, ricordando al tempo stesso lo spreco di risorse economiche che potrebbero essere impiegate a vantaggio di tutti gli abitanti e in primo luogo dei più poveri.

E cinque anni dopo, nella conferenza di revisione del 2010, il Papa ha inviato un messaggio per chiedere ai delegati di «superare i condizionamenti della storia».

Nessun principio internazionale può giustificare l’uso di armi di distruzione di massa, le cui conseguenze non possono essere contenute, come dimostrano le tragiche conseguenze di Hiroshima e Nagasaki e persino, come sottolineato dall’arcivescovo Chullikatt, gli incidenti del nucleare civile, come a Chernobyl e di recente a Fukushima e, più in generale, le minacce alla salute delle persone e all’ambiente naturale che l’uso del nucleare comporta.

Oggi, la prospettiva di esplosione di armi nucleari è troppo spaventosa per essere solo contemplata. Come affermato anche dalla Corte internazionale di giustizia dell’Aja, «esiste un obbligo di perseguire in buona fede e portare a termine i negoziati in vista del completo disarmo nucleare, da realizzare sotto stretto controllo internazionale».

Il mondo può vedere come gli argomenti legali e morali contro le armi nucleari s’intrecciano con quelli strategici, poiché queste armi «possono distruggere tutta la vita sul pianeta e mettere in pericolo tutto ciò che l’umanità ha sempre rappresentato e l’umanità stessa», come la Santa Sede dichiarava nel 1997, definendole «incompatibili con la pace che cerchiamo nel XXI secolo». Purtroppo, i negoziati globali auspicati dalla Corte dell’Aja non sono neppure incominciati e anche il trattato bilaterale Start tra Stati Uniti e Russia prevede solo piccole riduzioni e lascia pressoché intatti gli arsenali e la loro minaccia.

È sulla base di questa evidenza che la Santa Sede chiede un’effettiva inversione di tendenza, la diffusione di una cultura di vera incolumità e sicurezza e anche politiche energetiche da considerare nella prospettiva di un autentico sviluppo integrale dell’essere umano. Perché, a sessantasei anni da Hiroshima e da Nagasaki, è tempo di comprendere e di scegliere, come ha ricordato ancora l’arcivescovo Chullikatt nel seminario a Kansas City, che «ogni passo sull’agenda della non proliferazione e del disarmo sia volto ad assicurare la sicurezza e la sopravvivenza dell’umanità e costruito sui principi del valore della dignità umana e della centralità della persona, che costituisce la base del diritto internazionale».

L'Osservatore Romano 6 agosto 2011)

Guerra e carestia in Somalia

Guerra e carestia in Somalia - Pierluigi Natalia

Quando

 

le divisioni

 

inaridiscono

 

anche la speranza


di Pierluigi Natalia
La ripresa dei combattimenti a Mogadiscio in contemporanea con l’avvio del ponte aereo del Programma alimentare mondiale (Pam) dell’Onu non sembra casuale. Quella sorta di economia parallela che si sviluppa intorno agli aiuti internazionali è infatti da sempre magna pars nella guerra tra i diversi clan somali. Nella sua ultima versione, questa guerra si presenta come un’insurrezione guidata dalle milizie radicali islamiche di al Shabaab contro il Governo del presidente Sharif Ahmed, a suo tempo leader delle Corti islamiche di Mogadiscio che vennero scacciate dall’intervento armato dell’Etiopia. Nonostante questa sua forte identità islamica, Ahmed fronteggia l’attacco di al Shabaab praticamente dal suo insediamento.

Ma questo è solo uno degli aspetti più recenti e macroscopici della guerra civile che si protrae da un ventennio, con modi e fasi diversi, oltretutto dopo le devastazioni della lunga dittatura di Siad Barre. Al Shabaab, pur contando su meno di tremila uomini armati, a opinione concorde di molti osservatori, è riuscito a imporre negli ultimi anni il proprio controllo su vaste zone della Somalia, soprattutto operando nelle maglie dei complessi rapporti tra i clan e tra i soggetti internazionali coinvolti a vario titolo. Né il Governo di Ahmed, internazionalmente riconosciuto, finanziato e anche armato, è mai stato in grado di imporre la sua autorità al di fuori della capitale. E anche qui resiste solo grazie alla presenza dei contingenti ugandese e burundese dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia.

Ma la questione non è militare in senso stretto e va letta alla luce proprio delle divisioni della Somalia, dove la siccità inaridisce i campi come in altre zone del Corno d’Africa, ma dove a inaridire la speranza è soprattutto la guerra perpetua tra clan. Del resto, al Shabaab significa gioventù e i suoi miliziani sono appunto ragazzi di vent’anni, cresciuti in un Paese che è in guerra da quando sono nati e dove — come in molte altre realtà del continente dove arruolare bambini soldato è la normalità — imbracciare un mitra è considerato da molti l’unico modo per procurarsi da mangiare.

Persino ufficiali dell’Amisom, sotto garanzia di anonimato, confermano che in molti casi i combattenti di al Shabaab chiedono di arrendersi, ma vengono respinti perché non ci sono strutture e programmi per reintegrarli nella società civile (ammesso che l’espressione abbia ancora qualche senso in Somalia) e per dare loro la prospettiva di un futuro diverso. In questo senso, peraltro, non mancano iniziative che potrebbero costituire un esempio, come quelle nel Puntland, la regione semiautonoma nel nord del Paese dove le autorità locali hanno avviato una strategia di dialogo con i gruppi armati che sta portando qualche frutto, proprio garantendo forme di reinserimento a quanti depongono le armi. Per convincere i giovani a smettere di combattere bisogna fare cioè della pace una prospettiva concreta e appetibile.

Questo implica fare i conti con la questione dei clan, un problema che la comunità internazionale non ha mai saputo davvero affrontare in Somalia e che, per inciso, è parte anche di altre crisi internazionali, come quella irrisolta in Afghanistan e quella esplosa di recente in Libia. A spiegare e a fronteggiare tali situazioni non bastano i soli parametri economici. Così come la stessa componente religiosa — anche sotto il suo aspetto di fondamentalismo — ha un’importanza non assoluta nelle dinamiche somale, sebbene tra i capi di al Shabaab ci siano diversi stranieri, in molti casi facenti parte di quella sorta di galassia terroristica che fa riferimento, almeno ideologico, all’organizzazione Al Qaeda. La questione riguarda anche l’aiuto umanitario: se è vero che le milizie di al Shabaab impediscono, nelle zone che controllano, l’azione degli operatori umanitari non islamici, è altrettanto vero che a rendere possibile un simile atteggiamento è la connivenza, se non la voracità, dei clan in lotta fra loro.

Questo punto sembra però essere ignorato da diversi soggetti internazionali, a partire dai Governi di Stati confinanti come l’Etiopia, che ha giustificato sempre ogni suo intervento in Somalia con la volontà di non permettere l’instaurazione di uno Stato islamista ai suoi confini, o come l’Uganda, primo sponsor dell’Amisom e che, peraltro, ha subito sanguinosi attentati rivendicati da al Shabaab.

Se l’intervento internazionale non riuscirà a favorire il cambiamento di queste dinamiche, anche l’ingente sforzo umanitario delle agenzie dell’Onu, compreso il ponte aereo del Pam, e delle organizzazioni non governative impegnate in Somalia sarà destinato al massimo a tamponare l’emergenza che ha ridotto Mogadiscio a un grande campo profughi. Nella capitale somala, che negli ultimi anni si era svuotata di molti suoi abitanti in fuga dai combattimenti, si sono infatti riversate negli ultimi due mesi oltre centomila persone, provenienti da diverse regioni del Paese, soprattutto dal Bakool e dal Basso Shabelle, dove la carestia è più dura.

Anche questo avalla l’opinione degli osservatori convinti fin dall’inizio che il programma di aiuti al Corno d’Africa avrebbe avuto in Somalia poche possibilità di essere messo in pratica al di fuori di Mogadiscio e che se non si rimuoveranno le cause del conflitto la situazione continuerà a peggiorare. Perché gli interventi umanitari possono tamponare un’emergenza momentanea, ma la fame e la guerra che uccidono la Somalia richiedono soluzioni politiche.

L'Osservatore Romano31 luglio 2011)

Gli ostacoli all'azione umanitaria in Somalia

Gli ostacoli all'azione umanitaria in Somalia - Pierluigi Natalia

 

Fame,

 

politica

 

e propaganda




di Pierluigi Natalia
Oltre ai ritardi dell’intervento internazionale sul piano finanziario, ci sono motivi politici interni e persino di propaganda che contribuiscono a ostacolare l’azione umanitaria in Somalia, dove più pesanti si stanno rivelando le conseguenze della siccità. Questa sta mettendo in pericolo di morte per fame oltre dodici milioni di persone in vaste regioni del Corno d’Africa, il nord del Kenya, il sud dell’Etiopia, Gibuti, la regione ugandese di Karamojia e, appunto, l’intera Somalia.

Nella riunione straordinaria tenuta questo lunedì nella sede della Fao a Roma, su richiesta della Francia nella sua funzione di presidente di turno del g20, la comunità internazionale ha definito impegni finanziari sui quali si raccoglieranno i fondi in una conferenza dei donatori, questo mercoledì, a Nairobi, in Kenya. Nella riunione, soprattutto, è stato concordato un programma sia per scongiurare nell’immediato la catastrofe incombente, sia per gettare finalmente le basi per la costruzione di una sicurezza alimentare di lungo termine nella regione.

Dal punto di vista operativo, si è stabilito che a gestire la risposta siano i Governi dei sei Paesi colpiti dalla crisi, tenuti informati dal piano d’azione per il Corno d’Africa del Comitato permanente interagenzie dell’Onu. E si è sottolineato come ci sia ancora un margine per intervenire a sostegno delle popolazioni colpite, per rimettere in piedi i loro mezzi di sussistenza e consentire a queste comunità di piccoli contadini, pastori e pescatori di superare la crisi nell’ambito delle proprie realtà. Questo, fra l’altro, permetterebbe di evitare per quanto possibile il proliferare di campi profughi con l’aggregazione di un enorme numero di sfollati.

Proprio la cruciale questione della gestione degli aiuti minaccia però di diventare paralizzante in Somalia, dove il Governo del presidente Sharif Ahmed, internazionalmente riconosciuto, di fatto non controlla vaste regioni del Paese, soprattutto al sud, nelle quali l’unica forma di autorità è quella delle milizie radicali islamiche di al Shabaab, che guidano l’insurrezione contro il Governo stesso. Non a caso, il vicepremier somalo, Mohamed Ibrahim, intervenuto alla riunione a Roma, ha chiesto alla comunità internazionale di aprire corridoi umanitari per il trasporto di aiuti alimentari. Il Governo somalo ha già dimostrato di non poter fronteggiare con le proprie forze l’insurrezione e nella stessa Mogadiscio resiste solo grazie all’appoggio delle truppe ugandesi e burundesi dell’Amisom, la missione dell’Unione africana in Somalia. La richiesta di Mohamed Ibrahim sottinende, quindi, che tali corridoi dovrebbero avere protezione militare internazionale contro coloro che «non hanno permesso per troppo tempo il passaggio degli aiuti verso le popolazioni somale colpite dalla gravissima crisi alimentare», come ha specificato il vicepremier.

Il riferimento è alle milizie di al Shabaab che da oltre un anno e mezzo hanno posto il veto all’azione delle agenzie dell’Onu. Sulla questione, negli ultimi giorni sembrano essere emersi contrasti all’interno delle milizie stesse. Il veto alla presenza di operatori internazionali non islamici sembrava essere stato rimosso e, anzi, da al Shabaab erano giunte richieste d’aiuto al Programma alimentare mondiale dell’Onu, che durante la riunione a Roma ha confermato l’avvio di un ponte aereo per Mogadiscio. Altri esponenti delle milizie radicali islamiche avevano però ribadito subito le minacce agli operatori internazionali, accusandoli di voler praticare un’azione colonialista sotto il pretesto dell’intervento umanitario. In questo senso sembrano andare anche le ultime dichiarazioni di uno dei portavoce degli insorti, Ali Mohamoud Rage, che ha ordinato ai somali di «rimanere nelle loro case invece di cercare cibo e acqua fuori dal Paese», sostenendo che le Nazioni Unite raccontano «bugie» e che le loro dichiarazioni sulla carestia sono una «chiara esagerazione», perché «nel sud della Somalia sono ricominciate le piogge e i fiumi hanno ripreso a scorrere».

A parte la propaganda politica e i suoi effetti sul perpetuarsi di una guerra civile che devasta la Somalia da un ventennio, l’assenza di un interlocutore certo minaccia di vanificare quanto stabilito a Roma proprio nel Paese con la situazione più drammatica.

Sullo sfondo, inoltre, in Somalia come nel resto dell’Africa e del sud del mondo, resta poi l’irrisolta questione della mancata volontà politica internazionale — al di là degli intenti più volte proclamati e ribaditi anche questa volta a Roma — di mettere un freno alla volatilità dei prezzi agricoli determinati dalla speculazione. Quello che manca è cioè un vero coordinamento tra i diversi soggetti internazionali sulle politiche del settore. Questo riguarda sia l’aspetto della produzione, che oggi è finalizzata al commercio prima che alla sussistenza delle popolazioni, sia soprattutto la mancata costituzione di adeguate riserve alimentari d’emergenza per fare fronte alle crisi.

L'Osservatore Romano 27 luglio 2011

La cattura di Goran HadŽić

La cattura di Goran HadŽić - Pierluigi Natalia

Più nessun

 

processo

 

in sospeso

 

per l’ex Jugoslavia

di Pierluigi Natalia
Con la consegna di Goran Hadžić al Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja per l’ex Jugoslavia si è conclusa la lunga fase della ricerca dei criminali di guerra latitanti. Ora la giustizia internazionale non corre più il rischio di lasciare processi in sospeso e può dire parole conclusive, almeno sul piano del diritto, su una delle pagine più oscure della storia europea.

Hadžić, leader dei serbi della Croazia e presidente dell’effimera repubblica della Krajina negli anni del conflitto (1991-1995) era infatti l’ultimo dei 161 incriminati dal Tpi a non essere stato ancora consegnato alla giustizia internazionale. In particolare, era uno dei tre superlatitanti — insieme ai serbi bosniaci Radovan Karadžić e Ratko Mladić — la cui mancata cattura aveva per anni ostacolato il processo di avvicinamento della Serbia all’Unione europea e, più in generale la normalizzazione dei Balcani.

La cattura di Hadžić è stata infatti subito definita «un ulteriore importante passo» nel percorso per l’ingresso della Serbia nell’Unione europea in una nota congiunta del presidente della Commissione europea, José Manuel Durão Barroso, del presidente del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e dell’alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza, Catherine Ashton.

Ma è il concetto stesso di giustizia internazionale a uscire rafforzato. Non a caso, il primo apprezzamento per la cattura di Hadžić è arrivato dal segretario generale delle Nazioni Unite, Ban Ki-moon, che si è congratulato con il presidente serbo Boris Tadić e con le autorità di Belgrado «per la loro leadership e per aver posto fine all’impunità di quanti sono accusati di gravi violazioni del diritto internazionale umanitario». Anche il segretario generale della Nato, Anders Fogh Rasmussen, ha rilevato che la cattura di Hadžić consente di chiudere «uno dei capitoli più dolorosi della recente storia europea». Rasmussen ha poi lodato il passo intrapreso dalle autorità serbe per rispettare i loro obblighi internazionali. «Il futuro della Serbia si basa sulla costruttiva cooperazione con i suoi vicini e con la famiglia euroatlantica», ha detto il segretario dell’Alleanza atlantica, assicurando che questa resta impegnata ad assistere la regione dei Balcani occidentali sulla sua strada verso questa integrazione.

In effetti, la cattura di Hadžić, che segue di poche settimane quella di Mladić — dopo che già tre anni fa era stato arrestato Karadžić — è anche un successo sul piano interno del presidente Tadić, che della cooperazione con il Tpi ha fatto una delle chiavi della sua politica, battendosi senza incertezze contro perduranti sentimenti di esasperato nazionalismo e contro le forze politiche che li cavalcano. «Abbiamo chiuso una pagina macabra della nostra storia», ha detto Tadić. «Ora vediamo se i nostri interlocutori europei faranno quello che hanno promesso», ha aggiunto, riferendosi alle aspettative di Belgrado, che spera di ottenere entro l’anno lo status di Paese candidato e una data d’inizio del negoziato di adesione alla Ue.

Il Governo serbo ha inoltre rimarcato che pur avendo arrestato tutti i criminali di guerra, come richiesto dalla giustizia internazionale, continuerà a collaborare con il Tpi per quanto riguarda l’accesso agli archivi e a tutta la documentazione necessaria. Fonti di Belgrado hanno precisato che sono giunte dall’Aja oltre tremila richieste di assistenza alle quali è stata data una risposta esauriente. Anche questo è rilevante per il Tpi, istituito diciotto anni fa, e che ora, come detto, non ha più processi a rischio di restare in sospeso. Tutti gli imputati, infatti, o sono morti o devono rispondere alle accuse.

(©L'Osservatore Romano  24 luglio  2011)

Il Sud Sudan proclama l'indipendenza

Il Sud Sudan  proclama l'indipendenza - Pierluigi Natalia

Nascita

(complicata)

di una nazione



Di Pierluigi Natalia
Se la nascita di una Nazione dovesse essere paragonata a quella di un essere umano, nel caso del Sud Sudan si potrebbe  parlare di un parto con complicazioni, anche se le prospettive di sopravvivenza del nascituro restano buone. E infatti le popolazioni locali guardano  all’appuntamento  di questo sabato 9 luglio — data ufficiale della proclamazione dell’indipendenza —  con una fiducia e con un entusiasmo genuini,  ai quali danno voce numerosi rappresentanti della società civile  e della comunità ecclesiale.
Tuttavia, le complicazioni della secessione restano, come dimostra la probabile proroga della missione dei caschi blu dell’Onu nella tormentata zona di confine tra Sudan e Sud Sudan, dove i recenti scontri nel Kordofan meridionale testimoniano  un persistente clima di tensione. La  prospettiva è emersa  dai colloqui del Segretario generale Ban Ki-moon, che ha fatto tappa a Khartoum, prima di recarsi nella capitale sudsudanese  Juba per presenziare alla  proclamazione dell’indipendenza.
Né a fugare i dubbi degli osservatori basta l’annunciata presenza a tale cerimonia del presidente sudanese Omar Hassam el Bashir.  Restano infatti irrisolti i principali contrasti,   dall’attribuzione della regione petrolifera dell’Abyei,  tuttora contesa tra i due Stati,  alla delimitazione dei confini,  dalla suddivisione  del debito pubblico  a quella, soprattutto, dei guadagni delle  risorse petrolifere.
Il petrolio è concentrato in gran parte nelle regioni meridionali — oltre appunto che nell’Abyei — e il Governo di Khartoum non intende rinunciare a una  sua quota di proprietà,  sostenendo che ciò prevede l'accordo di pace del 9 gennaio 2005, che pose fine all’ultraventennale conflitto civile. Le  autorità di Juba intendono  invece gestire in proprio le perforazioni, limitandosi a pagare a Khartoum l'uso degli oleodotti e delle raffinerie. A una simile posizione non sono estranee le proposte delle compagnie petrolifere multinazionali, da sempre interessate al petrolio sudanese.
Nei giorni scorsi, lo stesso el Bashir e il presidente sudanese Salva Kiir Mayardit hanno partecipato a una riunione ad Addis Abeba promossa dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo in Africa (Igad) — che a suo tempo aveva mediato l’accordo del 2005 — senza riuscire a dirimere le questioni ancora aperte. L’Igad si è dichiarata soddisfatta  della promessa   di  proseguire i negoziati anche dopo il 9 luglio, ma molti osservatori non nascondono  delusione e inquietudine per essere arrivati  alla separazione  senza aver prima sciolto tutti i nodi, come le  parti si erano impegnate a fare.
Sull’esito finale dei negoziati si possono fare solo ipotesi, ma proprio il persistere dei contrasti potrebbe spingere il nascituro 54° Stato del continente, finora dipendente quasi in tutto da Khartoum,   a cercare  altre alleanze e  una diversa collocazione internazionale.
Una buona incubatrice potrebbe essere  la Comunità dell'Africa orientale (Eac, nell’acronimo in inglese), che comprende  Burundi,  Kenya, Rwanda, Tanzania e Uganda. Alla prospettiva che il  Sud Sudan possa  diventarne presto il sesto  Stato membro si guarda con palese favore soprattutto in Kenya. Qui molti commentatori ricordano che  il dovere morale di sostenere lo sviluppo di un Paese vicino devastato dalla guerra si sposa con interessi sia di sicurezza sia  economici,  dato che Nairobi e l’Eac in generale vi troverebbero buone   opportunità di investimenti. Del resto, già ora società kenyane gestiscono buona parte dei servizi in Sud Sudan,  soprattutto trasporti e  importazione di prodotti agricoli. Così come sono kenyane le banche che vi hanno aperto le principali linee di credito, come la Kenya Commercial Bank o l’Equity Bank.
A questo si aggiungono  legami storici  consolidati dall’accoglienza ottenuta in   Kenya da migliaia di rifugiati sudsudanesi all’epoca del conflitto. Tra l’altro,  molti di loro  hanno potuto studiare nel Paese ospitante e ora potrebbero diventare  nel nuovo Stato una classe   dirigente propensa  a consolidare legami tanto di amicizia quanto di vicendevole vantaggio. 
Anche in questo torna la questione del petrolio, con il progetto di affrancare il Sud Sudan dalla dipendenza dalle strutture di Khartoum. Già è prevista la costruzione di una linea ferroviaria che  collegherà il nuovo Stato all’Uganda e ai porti kenyani sull’Oceano Indiano. Un domani potrebbe affiancarla  un oleodotto, da realizzare  magari con il contributo delle compagnie petrolifere internazionali.
(©L'Osservatore Romano  9 luglio  2011)