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Tra i Paesi del bacino

Tra i Paesi del bacino - Pierluigi Natalia

Sulle acque

del Nilo

non navigano

intese



Di Pierluigi Natalia
La missione ad Addis Abeba, questo fine settimana, del primo ministro del nuovo Governo egiziano, Essam Sharaf, non sembra destinata a portare a nuove intese sulla distribuzione delle acque del Nilo, una delle più annose e controverse questioni africane.

Come noto, in materia vigono tuttora gli accordi stipulati nel 1929 tra l’Egitto e la Gran Bretagna, allora rappresentante delle sue diverse colonie nel bacino del principale fiume africano. Questi accordi, a vantaggio soprattutto dell’Egitto e in misura minore del Sudan, sono contestati da sempre dagli altri Paesi del bacino affrancatisi dalla colonizzazione. Da qui i tentativi, ormai pluridecennali, di stipulare nuove intese, per evitare che ogni Paese continui ad agire unilateralmente, provocando crisi suscettibili di sfociare addirittura in conflitti armati, come si rischiò qualche anno fa proprio tra Egitto ed Etiopia.

Nei giorni scorsi, in una precedente visita a Kampala, Sharaf non ha ottenuto dal presidente ugandese Yoweri Museveni l’impegno a sottoscrivere il nuovo trattato per il bacino del Nilo, sostenuto dal Cairo. Ad Addis Abeba i colloqui si concentrano sulla costruzione di una nuova diga, chiamata Millennium o della Rinascita, sul Nilo azzurro, alla frontiera con il Sudan, avviata dal Governo di etiopico del primo ministro Meles Zenawi.

Già nelle scorse settimane ci sono stati diversi colloqui tra rappresentanti egiziani e responsabili politici e leader religiosi etiopici, che non hanno portato passi in avanti evidenti.

Come detto, i colloqui tra Sharaf e Zenawi non sembrano destinati a sbloccare la situazione. Tuttavia, preventivare un completo fallimento è eccessivo. Su tale questione, infatti, già può considerarsi un successo il fatto che i toni non si siano ulteriormente irrigiditi, al punto che Zenawi, in un’intervista rilasciata questa settimana al quotidiano libanese «Al Hayat», ha sostenuto che «non ci sono problemi con l’Egitto sullo sfruttamento dell’acqua del Nilo». Inoltre, il nuovo Governo del Cairo ha mostrato di voler ristabilire più solidi e proficui rapporti con i Paesi della fascia centrale del continente, sostanzialmente trascurati dal deposto regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, che per oltre 25 anni non si è mai recato in visita ufficiale in un Paese dell’Africa subsahariana.

Questo nuovo stile potrebbe sbloccare una questione che finora ha visto proprio l’Egitto (con il sostanziale appoggio del Sudan) opporsi a ogni cambiamento. Ancora nell’ultima riunione collettiva tra i dieci Paesi del bacino del Nilo, lo scorso anno a Sharm-el-Sheikh era stato proprio il Governo di Mubarak a opporsi di nuovo alla firma del Nile River Cooperative Framework Agreement (accordo quadro di cooperazione del Nilo), ribadendo di voler mantenere i diritti su oltre 55 dei 100 miliardi di metri cubi d’acqua trasportati dal Nilo ogni anno.

Il piano alternativo proposto dal nuovo Governo del Cairo non si discosta molto dalla tradizionale posizione egiziana. Tuttavia, recepisce una delle richieste fondamentali di Burundi, Etiopia, Eritrea, Kenya, Repubblica democratica del Congo, Rwanda, Sudan, Tanzania e Uganda, cioè il principio di una gestione condivisa delle risorse idriche, da realizzarsi anche con la creazione di una commissione permanente.

Inoltre, va tenuto conto della nascita di un nuovo attore nella gestione dell’acqua del Nilo, cioè il Sud Sudan che il prossimo 9 luglio diventerà formalmente indipendente, secondo quanto stabilito dal referendum dello scorso gennaio. Finora, la posizione predominante dell’Egitto e in misura minore del Sudan non è stata scalfita, ma un nuovo Stato non arabo potrebbe rafforzare la richiesta degli altri Paesi del bacino di arrivare finalmente a una ridefinizione delle quote. In questo senso sembra andare anche la mancata risposta sudsudanese all’appello lanciato dal Governo di Khartoum a mantenere una posizione comune sulla questione.

(©L'Osservatore Romano 14 maggio 2011)

La crisi politica in Costa d’Avorio

La crisi politica in Costa d’Avorio - Pierluigi Natalia


Ferite

non sanate




Di Pierluigi Natalia
La fine dei combattimenti ad Abidjan, la principale città della Costa d’Avorio, dopo più di venti giorni dalla cattura dell’ex presidente Laurent Gbagbo, segna di certo un punto fermo nella crisi in cui era riprecipitato il Paese dopo le elezioni presidenziali dello scorso 28 novembre, con la vittoria di Alassane Ouattara non riconosciuta dallo stesso Gbagbo. Cherif Ousmane, il comandante delle Forze repubblicane di Costa d’Avorio (Frci), le truppe del Governo di Ouattara guidato dal primo ministro Guillaume Soro, ha detto la settimana scorsa che è venuta meno l’ultima resistenza dei miliziani fedeli a Gbagbo asserragliati nel popoloso quartiere settentrionale di Yopougon. I soldati delle Frci hanno disarmato decine dei cosiddetti Giovani patrioti, sostenitori di Gbagbo, nonché dei mercenari liberiani assoldati a suo tempo dall’ex presidente e che controllavano il quartiere dall’inizio della crisi.

La svolta è stata confermata dal giuramento prestato venerdì dallo stesso Ouattara, dopo che lo aveva formalmente proclamato presidente anche il Consiglio costituzionale, cioè proprio l’organismo che cinque mesi fa, quando era controllato da Gbagbo, aveva dichiarati non validi i voti di quattro regioni favorevoli a Ouattara, proclamando vincitore Gbagbo con il 51,45 per cento di quelli rimanenti e invalidando così i risultati diffusi della Commissione elettorale e certificati dalle Nazioni Unite, che assegnavano invece la vittoria a Ouattara con il 54,1 per cento. La cerimonia ufficiale di insediamento di Ouattara dovrebbe invece tenersi il 21 maggio a Yamoussoukro, la capitale politica della Costa d’Avorio, davanti a capi di Stato e di Governo stranieri.

La fine dei combattimenti lascia però strascichi pesanti e la Costa d’Avorio guarda le sue ferite senza che siano ancora ben chiari gli strumenti per sanarle. Tra l’altro, con la conclusione delle operazioni militari, da Yopougon sono giunte anche notizie del ritrovamento di decine di corpi senza vita, per lo più miliziani ma anche civili. A darne conferma è stata la locale Croce Rossa, che ha anche riferito della presenza di una fossa comune contenente una trentina di morti. «Sono ancora sotto choc per tutti questi morti, tutti questi cadaveri» ha detto Soro, al termine di un sopralluogo effettuato già nella serata del 4 maggio a Yopougon, denunciando anche «esecuzioni sommarie di civili perpetrate dai miliziani» e la presenza di «criminali e banditi armati e in uniforme che pretendano appartenere alle Frci, responsabili di maltrattamenti».

Soro ha promesso misure «severe e celeri per neutralizzare questi elementi» che imperversano a Yopougon e ristabilire la sicurezza.

A destare la preoccupazione degli operatori umanitari è anche la situazione sanitaria del quartiere, dove per settimane settimane la spazzatura non è stata prelevata, e dove scarseggiano cibo, acqua e medicinali.

Tra l’altro, l’inizio della stagione delle piogge fa temere il possibile diffondersi di epidemie. Contemporaneamente, è in atto un’emergenza profughi di dimensioni ragguardevoli, con circa duecentomila rifugiati all’estero, soprattutto in Liberia, e almeno ottocentomila sfollati interni, secondo le stime dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.

Allarmi analoghi a quelli lanciati da Yopougon arrivano anche dalle regioni occidentali della Costa d’Avorio dove gli sfollati interni hanno trovato riparo negli ultimi mesi, in particolare nella zona di Duékoué. Nei campi dove i profughi vivono ammassati, spesso senza acqua potabile e in condizioni di totale insalubrità, sono stati registrati casi di diarrea e malaria, soprattutto tra i bambini.

Ad Abidjan, intanto, sono arrivati tre esperti internazionali indipendenti dell’Onu per indagare su presunti crimini contro l’umanità perpetrati dalle forze dei due contendenti. Già in febbraio, in un rapporto pubblicato dopo una missione nel Paese, la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, che raccoglie in tutto il mondo le principali organizzazioni attive nel settore, aveva sottolineato le responsabilità di Gbagbo in crimini contro l’umanità, stimando che da novembre appunto a febbraio sarebbero stati almeno quattrocento i civili trucidati dalle sue truppe.

Ma anche sulle forze di Ouattara pesano analoghe accuse. La giustizia ivoriana, dal canto suo, ha cominciato a interrogare Gbagbo, che si trova in stato di arresto nella località settentrionale di Korhogo, sua moglie Simone, detenuta a Odienné, nel nord est, e una quarantina di esponenti del suo deposto regime.

(©L'Osservatore Romano 10 maggio 2011)

Nascono organismi regionali

Nascono organismi regionali - Pierluigi Natalia

In America Latina
si definiscono
nuove alleanze



Di Pierluigi Natalia
Nel mutamento in corso degli assetti geopolitici mondiali potrebbe avere un potenziale ruolo di rilievo la costituzione della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac), un nuovo organismo regionale del quale sono state gettate le basi in una riunione la scorsa settimana a Caracas tra i ministri degli Esteri di trenta Paesi dell’area. La Celac sarà formalmente costituita in un vertice dei capi di Stato fissato per il 5 e 6 luglio, sempre nella capitale venezuelana.

L’organismo nasce con una chiara vocazione latinoamericana e sembra destinato a porsi come alternativa all’Organizzazione degli Stati americani (Osa), che comprende anche Stati Uniti e Canada. Del resto, la nascita della Celac, su impulso di Cile e Venezuela, era stata annunciata nel febbraio 2010 al summit dei presidenti di Cancún, in Messico, proprio con l’obiettivo dichiarato di arginare l’influenza di Washington nella regione e di riequilibrare i rapporti continentali, considerati sbilanciati a vantaggio appunto degli Stati Uniti.

Il presidente venezuelano Hugo Chávez, in un intervento introduttivo ai lavori della riunione ministeriale, ha parlato di «un fatto storico». Ma anche esponenti di Governi su posizioni politiche lontane da quelle di Chávez hanno sposato la tesi dell’integrazione latinoamericana come freno a un condizionamento nordamericano sia sul piano politico sia su quello del modello di sviluppo. Non a caso, nel documento messo a punto per tracciare le linee guida della Celac si legge che l’organismo «dovrà innanzitutto promuovere l’integrazione regionale allo scopo di approfondire il nostro sviluppo sostenibile e dare impulso all’agenda regionale nei fori mondiali».

Per farlo, i Paesi aderenti intendono soprattutto aumentare la loro coesione. «Sarà il forum più importante della nostra regione. Stiamo costruendo l’architettura delle regole di base per il funzionamento di questa nuova istituzione, questo sogno di integrazione che Simón Bolívar forgiò per tutta l’America Latina e i Caraibi», ha dichiarato il vice ministro degli Esteri cileno, Fernando Schmidt. Da parte sua, il ministro degli Esteri argentino, Héctor Timerman, ha sottolineato l’importanza del nuovo meccanismo di concertazione «per non ritrovarci mai più divisi». Il documento costitutivo del Celac includerà tra l’altro una clausola democratica — un atto significativo in un continente che in epoche abbastanza recenti ha conosciuto diverse forme di dittatura, soprattutto militari — oltre a una clausola di non ingerenza nelle questioni interne dei Paesi, per garantire indipendenza e sovranità, che i vari Governi sudamericani, centroamericani e caraibici non intendono cedere. Già questo, come accade quasi completamente con l’Unione africana e in parte rilevante con la stessa Unione europea, potrebbe però inficiare la capacità dell’America latina di riuscire a parlare con una voce sola nei contesti internazionali, aumentando la propria capacità di contribuire a determinarne le scelte.

Ciò detto, la nascita del nuovo organismo non costituisce di per sé un declino dell’influenza statunitense. Nelle stesse ore nelle quali si varava la struttura della Celac, nasceva in una riunione a Lima tra i presidente di Perú, Colombia, Messico e Cile, un altro organismo regionale, orientato prevalentemente nel campo economico e commerciale, che avrà gli Stati Uniti come principale interlocutore. L’organismo, denominato Accordo del Pacifico o Accordo di integrazione profonda (Aip) intende mettere a punto politiche congiunte per rafforzare settori produttivi, servizi e investimenti, ma anche combattere uniti contrabbando e narcotraffico e il riciclaggio di denaro.

L’Aip si è data cioè in gran parte l’obiettivo a suo tempo dichiarato dal fallito progetto statunitense dell’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe. Secondo diversi analisti, l’Aip si pone inoltre, sul piano commerciale, in competizione con il Mercosur, il mercato comune di cui fanno parte Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con il Venezuela in via di adesione, ma anche con l’Unasur, l’Unione delle Nazioni sudamericane. Sul piano politico, l’Aip sembra destinata a fare da contrappeso soprattutto all’Alba, l’Alleanza bolivariana per le Americhe, promossa da Venezuela e Cuba. Più in generale, diversi analisti sostengono che l’Aip potrebbe vanificare proprio gli sforzi portati avanti da alcuni Paesi per liberarsi dell’ingerenza di Washington.

 (©L'Osservatore Romano 5 maggio 2011)

Nel continente si riversano rifiuti tossici di tutto il mondo

Nel continente si riversano rifiuti tossici di tutto il mondo - Pierluigi Natalia




Pattumiera
Africa



Di Pierluigi Natalia
A scavare in Africa non si trovano solo preziosi e petrolio. Sotto pochi palmi di terra, in quasi tutti i Paesi costieri del continente, giacciono milioni di tonnellate di rifiuti del nord del mondo, in qualche caso pericolosi per radioattività o velenosità, sempre inquinanti e responsabili di devastazioni dell'ambiente. Non li produce certo l'Africa. Sono i Paesi ricchi a usare il continente da un lato come miniera e dall'altro come discarica. Di conseguenza l'Africa è da decenni la principale pattumiera del mondo industrializzato.

A riproporre questa mai risolta questione è stata nei giorni scorsi la scoperta nel porto fluviale di Strasburgo, in Francia, di due container di rifiuti diretti rispettivamente in Camerun e Marocco. Secondo quanto riferito dalla Misna, l'agenzia internazionale delle congregazioni missionarie, in un caso si trattava di pneumatici usati, e nell'altro di paraurti, pistoni e di un’intera carcassa di camionetta imbevuta d’olio e altri fluidi chimici. Questa volta, le forze dell'ordine francesi, allertate da alcuni documenti sospetti, hanno scovato i carichi, che rientravano nella fattispecie di reato di trasferimento illecito di rifiuti.

Questo reato è punibile al massimo con due anni di detenzione e con una multa fino a 75.000 euro, troppo poco per scoraggiare il fenomeno. «Il costo di trattamento dei rifiuti industriali, obbligatorio, è oneroso. È il motivo per cui un numero crescente di aziende tenta di inviarli verso l’Africa o verso l’Asia, dove tali materiali vengono poi sotterrati, oppure lasciati all’aria aperta, o trasformati, al costo di causare problemi di salute o di sicurezza», ha riferito il colonnello Jean-Louis Monteil, dell’ufficio centrale per la lotta agli attentati all’ambiente e alla salute pubblica (Oclaesp), un dipartimento della gendarmeria francese istituito nel 2004. Secondo dati dell’Oclaesp, in un anno i 27 Paesi dell’Unione europea producono circa un miliardo e mezzo di tonnellate di rifiuti. Il costo medio dello smantellamento di una tonnellata di rifiuti industriali è di 400 euro, ma può lievitare in base alla componente tossica del materiale. Di conseguenza, le sanzioni previste dalla legge contro il traffico di rifiuti sono troppo blande per costituire un deterrente, e spesso ai titolari di aziende conviene tentare lo scarico verso un qualche Paese in via di sviluppo — in Africa, ma anche in Asia, soprattutto in India e Pakistan — piuttosto che conformarsi alle severe legislazioni europee in materia di protezione dell’ambiente.

Paesi dove legislazioni e controlli sono carenti e dove dilaga la corruzione, sono diventati quindi sempre di più le destinazioni di questi scomodi carichi. Non è un fenomeno nuovo e nell'ultimo ventennio è cresciuto a dismisura. Basterebbe ricordare lo tsunami del 2006 nell'oceano Indiano. Sulle coste africane l'onda di maremoto arrivò certamente con meno rilievo rispetto all'Indonesia e ai Paesi del subcontinente indiano e provocò quindi meno devastazioni. Ma in Somalia, per esempio, bastò che smuovesse il fondo marino e spazzasse via pochi metri di spiagge per portare allo scoperto un ammasso di rifiuti industriali, chimici e nucleari. Un'indagine condotta all'epoca da organi di stampa — tra gli altri il quotidiano britannico «The Times» e il settimanale italiano «Famiglia Cristiana» — accertò che tra quei rifiuti, presenti da almeno vent'anni, c'erano scorie di uranio radioattivo, cadmio, mercurio e piombo e anche materiale chimico, industriale ed ospedaliero altamente tossico proveniente dall’Europa. E da allora non si è certo interrotto il traffico delle navi cariche di veleni che fanno rotta verso i porti somali. Sempre nel 2006, un caso emblematico in Costa d’Avorio, dove furono scaricate illegalmente sostanze tossiche causando circa 15 morti e migliaia di intossicati, attirò l’attenzione sul fenomeno, senza però fermarlo.

Ad aggravare il fenomeno ha contribuito anche la rivoluzione tecnologica informatica. L’Onu ha calcolato che ogni anno si producono cinquanta milioni di tonnellate di rifiuti elettronici in tutto il mondo, ovvero più del 5 per cento di tutti i rifiuti solidi urbani del pianeta. Anche in questo caso, la loro destinazione è in prevalenza l'Africa. Anzi, per questo particolare tipo di rifiuti si è teorizzato persino che potessero costituire un donativo. Da più parti, infatti, si è sostenuto che quello che è vecchio in Occidente in realtà può essere è innovativo in Africa, cioè che materiale inutilizzabile nel nord del mondo, nei Paesi africani si trasforma in risorsa preziosa. In realtà, questa presunta beneficenza per aiutare lo sviluppo tecnologico dell'Africa si è presto rivelata per quel che è, cioè una truffa. Sotto la foglia di fico di qualche progetto che ha dato risultati (quasi sempre a opera di organizzazioni non governative senza fini di lucro) l’Africa è stata trasformata nella più grande discarica di computer a cielo aperto del Pianeta. Un'indagine di qualche anno fa dell'organizzazione non governativa Basel Action Network documentò che il 75 per cento del materiale elettronico che arriva in Nigeria non può essere riciclato e diventa agente inquinante. Ma quei rifiuti continuano ad arrivare. Il motivo, ovviamente, è che smaltirli nei Paesi ricchi costerebbe più del doppio che caricarli sui mercantili e scaricarli in Africa.

(©L'Osservatore Romano 24 aprile 2011)

Nonostante i disordini postelettorali

Nonostante i disordini postelettorali - Pierluigi Natalia

Speranze

nigeriane

di normalità




Di Pierluigi Natalia
La conferma di Goodluck Jonathan alla presidenza della Nigeria alimenta in molti osservatori la speranza di normalità democratica e soprattutto di uno sviluppo che favorisca finalmente i ceti più poveri e maggioritari della popolazione. Nonostante alcuni limitati, seppur gravi episodi di violenza, John Agyekum Kufour, l’ex presidente ghanese che guidava gli osservatori dell'Unione africana, ha parlato di un voto regolare e trasparente tanto nelle elezioni presidenziali di sabato scorso, quanto in quelle di sette giorni prima per il Parlamento, in attesa di quelle del 26 aprile per i governatori dei 36 Stati federati. Tra l'altro, l'impegno del Governo per garantire la regolarità del voto questa volta è stato massiccio e non ha favorito nessuna delle parti in lizza: per la prima volta ci sono stati circa duecento arresti per crimini legati al tentativo di manipolare le elezioni, in massima parte di rappresentanti del People's Democratic Party (Pdp), al potere in Nigeria fin dalla fine della dittatura militare nel 1999 e oggi guidato appunto da Jonathan, un fatto rilevante in una Nazione dove finora per comportamenti del genere si aveva quasi la garanzia dell’impunità.

Il Congress for Progressive Change (Cpc), principale partito dell'opposizione, ha però contestato asserite irregolarità ai danni del suo candidato, il generale Mohammed Buhari, che fu alla guida del Paese nel biennio 1984-1985 all’epoca della dittatura militare. Tafferugli dopo l'annuncio della vittoria di Jonathan ci sono stati soprattutto nella città di Kano, nel nord, considerata la roccaforte di Buhari, dove sono stati incendiati edifici, compresa una chiesa cattolica, secondo quanto riferito alla Misna, l'agenzia internazionale delle congregazioni missionarie, dal vescovo John Namaza Niyiring. Disordini sono scoppiati anche in altri Stati, come quelli di Kaduna e di Jos, già teatro negli ultimi anni di sanguinosi scontri interetnici che avevano assunto anche connotazioni religiose.

Tutti questi episodi, comunque, non sono neppure lontanamente paragonabili a quanto accaduto in tutte le elezioni precedenti, da ultimo quelle del 2007, segnate da centinaia di morti e giudicate dagli osservatori indipendenti come le peggiori al mondo per violenze e frodi.

Tra l'altro, il successo di Jonathan è avvenuto nel pieno rispetto della Costituzione che stabilisce come per essere eletto al primo turno un candidato debba ottenere, oltre alla maggioranza assoluta dei voti totali, almeno il 25 per cento dei consensi in almeno 24 dei 36 Stati. Sulla base dei risultati diffusi dalla Commissione elettorale indipendente, Jonathan ha ottenuto circa il 60 per cento dei voti totali. Il presidente uscente ha poi avuto un buon risultato a Lagos, la maggiore metropoli del Paese, considerata roccaforte del partito di opposizione Action Congress of Nigeria (Acn), che aveva candidato Nuhu Ribadu, musulmano come Buhuri, e come Ibrahim Shekarau, dell’All Nigeria People's Party. A Lagos, Jonathan ha ottenuto molti più voti di quelli conquistati in passato e anche nelle elezioni parlamentari del 9 aprile dai candidati del Pdp. Più in generale, un primo confronto tra lo scrutinio delle presidenziali e i seggi parlamentari già assegnati dopo il voto del 9 aprile, conferma che il consenso per Jonathan supera quello per il Pdp, che mantiene comunque la maggioranza assoluta dei 360 deputati e dei 109 senatori, nonostante la crescita dell'opposizione.

Del resto, negli ultimi mesi il presidente uscente ha avuto più problemi all'interno del suo schieramento che nei confronti dell'opposizione, andata al voto divisa, il che non l'ha penalizzata nelle legislative, ma ha forse contribuito a consentire al presidente la vittoria al primo turno, senza la necessità di ballottaggio. La candidatura di Jonathan era infatti contrastata da vasti settori del Pdp, perché ha interrotto la consuetudine dell’alternanza al potere tra un esponente politico del nord a maggioranza musulmana e un cristiano del sud. Jonathan, cattolico dello Stato meridionale di Bayelsa, nel Delta del Niger, è subentrato da vicepresidente all’islamico Umaru Musa Yar'Adua, morto a maggio 2010 a metà del suo primo mandato. Ciò detto, è indubbio che il sostegno della macchina organizzativa del Pdp abbia consentito a Jonathan di ottenere nel nord un risultato determinante per l'esito della consultazione.

Ma soprattutto gli elettori hanno dato credito alla promessa di sanare quanto più possibile la frattura tra nord e sud del Paese e di migliorare e modernizzare le condizioni di vita delle popolazioni, soprattutto garantendo lavoro, dato che proprio miseria e disoccupazione alimentano violenze e contrapposizioni. In campagna elettorale, Jonathan ha promesso una rivoluzione del gas che vale dieci miliardi di dollari e mezzo milione di posti di lavoro. Per essere davvero tale, questa rivoluzione deve guardare più alla ridistribuzione che alla produzione della ricchezza. La Nigeria, primo produttore petrolifero dell’Africa e ottavo del mondo, deve infatti affrancarsi da un sistema che ha lasciato al proprio popolo solo le briciole dell'immane ricchezza delle risorse del suo sottosuolo. Finora l'esportazione di greggio ha arricchito le compagnie multinazionali e alcune oligarchie locali e non è stata capace di portare né lavoro né benessere ai 158 milioni di abitanti del più popoloso Paese dell'Africa, la cui stragrande maggioranza vive sotto la soglia di povertà di un dollaro al giorno, secondo l’indice dell’Onu per lo sviluppo umano. Se il presidente, forte del consenso ottenuto, riuscirà ad attuare le sue promesse non sarà certo un risultato da poco.

 
 
 
(©L'Osservatore Romano 20 aprile 2011)