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Le crisi a sud del Sahara
L’Africa
dimenticata
Di Pierluigi Natalia
All’attenzione delle organizzazioni internazionali e delle opinioni pubbliche di tutto il mondo sui fenomeni di cambiamento e di rivolta in atto nel Maghreb, oltre che in altre regioni del mondo arabo, continua a fare riscontro un sostanziale attendismo, se non una vera incuria, sulle situazioni in atto nel resto dell’Africa, quella subsahariana. Eppure anche queste potrebbero a loro volta prospettare — e in ogni caso richiederebbero — cambiamenti profondi. Non vi mancano, infatti, regimi simili a quelli che il vento del Maghreb sta facendo vacillare, né popolazioni altrettanto in attesa di un futuro diverso.
Ma per l’Africa subsahariana è un futuro ancora più difficile da costruire. Se nelle rivolte maghrebine c’è un aspetto di novità indiscutibile — basti pensare agli strumenti della modernità, come internet o la telefonia cellulare, usati come mezzi di comunicazione, autoconvocazione e confronto — e un chiaro protagonismo di una generazione emergente, nell’Africa nera c’è soprattutto una continua recrudescenza di irrisolti e pluridecennali problemi, che travolgono una generazione dopo l’altra. Vale per il Sahel come per l’Africa occidentale, per i Grandi Laghi come per il Corno d’Africa. Vale per le tante guerre dimenticate dell’Africa, così come per le emergenze umanitarie che si protraggono e incancreniscono nel continente.
Ne offre un esempio quanto accaduto proprio in questi giorni con l’intervento armato di Khartoum nella regione petrolifere dell’Abyei, un intervento che rimette in forse uno dei principali processi di pace in Africa, quello avviato dall’accordo del 9 gennaio 2005 che mise fine all’ultraventennale conflitto civile in Sud Sudan.
Così come la pacificazione resta difficile in Costa d’Avorio, di nuovo travolta negli ultimi mesi da rigurgiti di guerra civile, mentre fenomeni analoghi, seppure più contenuti, si registrano in Nigeria come in Niger, in Guinea come in Burkina Faso, nella Repubblica Democratica del Congo come in Kenya, nello Zimbabwe come nel Madagascar, e l’elenco potrebbe continuare. Per non parlare del Corno d’Africa, dove all’irrisolta tragedia che si protrae in Somalia da oltre vent’anni si affianca la ciclica recrudescenza delle tensioni tra Etiopia ed Eritrea, già in passato sfociate in conflitti armati.
Tra gli elementi comuni di tutte queste situazioni — soprattutto economici, ma anche di tipo etnico e sociale, quando non religioso — hanno un ruolo anche gli interessi stranieri, sia dei Paesi ex coloniali, sia delle potenze tradizionali come gli Stati Uniti o la Russia, sia dei Paesi emergenti, come la Cina o l’India. A veri mutamenti e a una vera stagione di sviluppo africano si oppone, cioè, anche l’interesse delle grandi potenze del mondo, economiche e politiche, che in Africa mantengono atteggiamenti di fatto neocolonialisti, piuttosto che reimpostare i rapporti su una cooperazione paritaria e mutualmente vantaggiosa, se non altro perché faciliterebbe lo sviluppo democratico e quindi in ultima analisi la pace e la sicurezza.
Ma attribuire la responsabilità dei ritardi africani solo a vecchi schemi sarebbe fuorviante. Anche gli osservatori più attenti e meglio disposti a spendersi per la causa dei popoli africani non possono ignorare che nel continente più devastato sono soprattutto i potentati locali a rimettere continuamente in forse i processi di pace avviati e a lasciare inattuati tutti gli impegni a promuovere forme di sviluppo sostenibile e socialmente indirizzato.
Al tempo stesso, la via della mobilitazione dei cittadini per difendere la propria libertà non trova ancora a sud del Sahara il modo di esprimersi e quindi di consolidare le democrazie del continente perennemente in crisi. Non può meravigliare, quindi, che mentre il mondo arabo è in piena trasformazione, proprio perché sottoposto alle pressioni delle piazze, nell’Africa subsahariana quello verso un futuro diverso resti un cammino in salita.
(©L'Osservatore Romano 1 giugno 2011)L'arresto di Ratko Mladiĉ
Pagine
nuove
per l'ex Jugoslavia
Di Pierluigi Natalia
L’arresto di Ratko Mladić, responsabile del massacro, nel luglio del 1995, di oltre ottomila civili bosniaci musulmani a Srebrenica, nel più spaventoso episodio di pulizia etnica del conflitto bosniaco, segna un successo tanto della giustizia internazionale quanto del Governo del presidente serbo Boris Tadić, impegnato a condurre il Paese sulla strada dell’adesione all’Unione europea.
Proprio la cattura dei principali latitanti ricercati dal Tribunale penale internazionale (Tpi) dell’Aja per l’ex Jugoslavia è da sempre, infatti, una delle condizioni poste dall’Unione europea alla Serbia per tale obiettivo. Dopo l’arresto, tre anni fa, dell’ex leader serbo bosniaco Radovan Karadžić, già sotto processo davanti Tpi, e quello di Mladić, che all’Aja sarà estradato non appena completare le procedure di legge, l’ultimo grande ricercato ancora latitante è Goran Hadžić, l’ex leader politico dei serbi di Croazia. Tadić ha promesso che, oltre a Hadžić, saranno arrestati anche i leader della criminalità organizzata in Serbia, con un’affermazione che ha valenza tanto interna quanto internazionale, soprattutto perché legata all’annuncio di un’inchiesta per scoprire chi abbia aiutato e coperto Mladić e gli altri criminali di guerra durante la latitanza. Tra l’altro, Tadić ha anche chiesto una commissione sotto mandato Onu che indaghi sul l’ultimo orrore imputato a Mladić, cioè un traffico d’organi in Kosovo.
Secondo Tadić, l’arresto di Mladić non solo «lava un’onta» e rappresenta una svolta per le aspirazioni di Belgrado per l’ingresso nell’Unione europea, ma «spiana la strada alla riconciliazione» del Paese. La convinzione che ci sia unità d’intenti tra la giustizia internazionale e le azioni governative potrà infatti da un lato facilitare il progressivo processo di integrazione europea dei Paesi dell’ex Jugoslavia, e dall’altro frenare le tentazioni di sentirsi vittime di comportamenti internazionali vessatori.
L’arresto di Mladić è anche una risposta di fatto alle critiche mosse a Belgrado ancora in questi giorni dal procuratore del Tpi, Serge Brammertz, il quale, al Consiglio di sicurezza dell’Onu, aveva sostenuto che «finora gli sforzi della Serbia di arrestare i fuggitivi non sono stati sufficienti». Ora, la giustizia internazionale e l’azione interna possono concorre a un medesimo obiettivo, quello di chiudere, garantendo i diritti delle vittime, la pagina tragica dei conflitti nell’ex Jugoslavia.
(©L'Osservatore Romano 28 maggio 2011)Tra i Paesi del bacino
Sulle acque
del Nilo
non navigano
intese
Di Pierluigi Natalia
La missione ad Addis Abeba, questo fine settimana, del primo ministro del nuovo Governo egiziano, Essam Sharaf, non sembra destinata a portare a nuove intese sulla distribuzione delle acque del Nilo, una delle più annose e controverse questioni africane.
Come noto, in materia vigono tuttora gli accordi stipulati nel 1929 tra l’Egitto e la Gran Bretagna, allora rappresentante delle sue diverse colonie nel bacino del principale fiume africano. Questi accordi, a vantaggio soprattutto dell’Egitto e in misura minore del Sudan, sono contestati da sempre dagli altri Paesi del bacino affrancatisi dalla colonizzazione. Da qui i tentativi, ormai pluridecennali, di stipulare nuove intese, per evitare che ogni Paese continui ad agire unilateralmente, provocando crisi suscettibili di sfociare addirittura in conflitti armati, come si rischiò qualche anno fa proprio tra Egitto ed Etiopia.
Nei giorni scorsi, in una precedente visita a Kampala, Sharaf non ha ottenuto dal presidente ugandese Yoweri Museveni l’impegno a sottoscrivere il nuovo trattato per il bacino del Nilo, sostenuto dal Cairo. Ad Addis Abeba i colloqui si concentrano sulla costruzione di una nuova diga, chiamata Millennium o della Rinascita, sul Nilo azzurro, alla frontiera con il Sudan, avviata dal Governo di etiopico del primo ministro Meles Zenawi.
Già nelle scorse settimane ci sono stati diversi colloqui tra rappresentanti egiziani e responsabili politici e leader religiosi etiopici, che non hanno portato passi in avanti evidenti.
Come detto, i colloqui tra Sharaf e Zenawi non sembrano destinati a sbloccare la situazione. Tuttavia, preventivare un completo fallimento è eccessivo. Su tale questione, infatti, già può considerarsi un successo il fatto che i toni non si siano ulteriormente irrigiditi, al punto che Zenawi, in un’intervista rilasciata questa settimana al quotidiano libanese «Al Hayat», ha sostenuto che «non ci sono problemi con l’Egitto sullo sfruttamento dell’acqua del Nilo». Inoltre, il nuovo Governo del Cairo ha mostrato di voler ristabilire più solidi e proficui rapporti con i Paesi della fascia centrale del continente, sostanzialmente trascurati dal deposto regime dell’ex presidente Hosni Mubarak, che per oltre 25 anni non si è mai recato in visita ufficiale in un Paese dell’Africa subsahariana.
Questo nuovo stile potrebbe sbloccare una questione che finora ha visto proprio l’Egitto (con il sostanziale appoggio del Sudan) opporsi a ogni cambiamento. Ancora nell’ultima riunione collettiva tra i dieci Paesi del bacino del Nilo, lo scorso anno a Sharm-el-Sheikh era stato proprio il Governo di Mubarak a opporsi di nuovo alla firma del Nile River Cooperative Framework Agreement (accordo quadro di cooperazione del Nilo), ribadendo di voler mantenere i diritti su oltre 55 dei 100 miliardi di metri cubi d’acqua trasportati dal Nilo ogni anno.
Il piano alternativo proposto dal nuovo Governo del Cairo non si discosta molto dalla tradizionale posizione egiziana. Tuttavia, recepisce una delle richieste fondamentali di Burundi, Etiopia, Eritrea, Kenya, Repubblica democratica del Congo, Rwanda, Sudan, Tanzania e Uganda, cioè il principio di una gestione condivisa delle risorse idriche, da realizzarsi anche con la creazione di una commissione permanente.
Inoltre, va tenuto conto della nascita di un nuovo attore nella gestione dell’acqua del Nilo, cioè il Sud Sudan che il prossimo 9 luglio diventerà formalmente indipendente, secondo quanto stabilito dal referendum dello scorso gennaio. Finora, la posizione predominante dell’Egitto e in misura minore del Sudan non è stata scalfita, ma un nuovo Stato non arabo potrebbe rafforzare la richiesta degli altri Paesi del bacino di arrivare finalmente a una ridefinizione delle quote. In questo senso sembra andare anche la mancata risposta sudsudanese all’appello lanciato dal Governo di Khartoum a mantenere una posizione comune sulla questione.
(©L'Osservatore Romano 14 maggio 2011)La crisi politica in Costa d’Avorio
Ferite
non sanate
Di Pierluigi Natalia
La fine dei combattimenti ad Abidjan, la principale città della Costa d’Avorio, dopo più di venti giorni dalla cattura dell’ex presidente Laurent Gbagbo, segna di certo un punto fermo nella crisi in cui era riprecipitato il Paese dopo le elezioni presidenziali dello scorso 28 novembre, con la vittoria di Alassane Ouattara non riconosciuta dallo stesso Gbagbo. Cherif Ousmane, il comandante delle Forze repubblicane di Costa d’Avorio (Frci), le truppe del Governo di Ouattara guidato dal primo ministro Guillaume Soro, ha detto la settimana scorsa che è venuta meno l’ultima resistenza dei miliziani fedeli a Gbagbo asserragliati nel popoloso quartiere settentrionale di Yopougon. I soldati delle Frci hanno disarmato decine dei cosiddetti Giovani patrioti, sostenitori di Gbagbo, nonché dei mercenari liberiani assoldati a suo tempo dall’ex presidente e che controllavano il quartiere dall’inizio della crisi.
La svolta è stata confermata dal giuramento prestato venerdì dallo stesso Ouattara, dopo che lo aveva formalmente proclamato presidente anche il Consiglio costituzionale, cioè proprio l’organismo che cinque mesi fa, quando era controllato da Gbagbo, aveva dichiarati non validi i voti di quattro regioni favorevoli a Ouattara, proclamando vincitore Gbagbo con il 51,45 per cento di quelli rimanenti e invalidando così i risultati diffusi della Commissione elettorale e certificati dalle Nazioni Unite, che assegnavano invece la vittoria a Ouattara con il 54,1 per cento. La cerimonia ufficiale di insediamento di Ouattara dovrebbe invece tenersi il 21 maggio a Yamoussoukro, la capitale politica della Costa d’Avorio, davanti a capi di Stato e di Governo stranieri.
La fine dei combattimenti lascia però strascichi pesanti e la Costa d’Avorio guarda le sue ferite senza che siano ancora ben chiari gli strumenti per sanarle. Tra l’altro, con la conclusione delle operazioni militari, da Yopougon sono giunte anche notizie del ritrovamento di decine di corpi senza vita, per lo più miliziani ma anche civili. A darne conferma è stata la locale Croce Rossa, che ha anche riferito della presenza di una fossa comune contenente una trentina di morti. «Sono ancora sotto choc per tutti questi morti, tutti questi cadaveri» ha detto Soro, al termine di un sopralluogo effettuato già nella serata del 4 maggio a Yopougon, denunciando anche «esecuzioni sommarie di civili perpetrate dai miliziani» e la presenza di «criminali e banditi armati e in uniforme che pretendano appartenere alle Frci, responsabili di maltrattamenti».
Soro ha promesso misure «severe e celeri per neutralizzare questi elementi» che imperversano a Yopougon e ristabilire la sicurezza.
A destare la preoccupazione degli operatori umanitari è anche la situazione sanitaria del quartiere, dove per settimane settimane la spazzatura non è stata prelevata, e dove scarseggiano cibo, acqua e medicinali.
Tra l’altro, l’inizio della stagione delle piogge fa temere il possibile diffondersi di epidemie. Contemporaneamente, è in atto un’emergenza profughi di dimensioni ragguardevoli, con circa duecentomila rifugiati all’estero, soprattutto in Liberia, e almeno ottocentomila sfollati interni, secondo le stime dell’alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Allarmi analoghi a quelli lanciati da Yopougon arrivano anche dalle regioni occidentali della Costa d’Avorio dove gli sfollati interni hanno trovato riparo negli ultimi mesi, in particolare nella zona di Duékoué. Nei campi dove i profughi vivono ammassati, spesso senza acqua potabile e in condizioni di totale insalubrità, sono stati registrati casi di diarrea e malaria, soprattutto tra i bambini.
Ad Abidjan, intanto, sono arrivati tre esperti internazionali indipendenti dell’Onu per indagare su presunti crimini contro l’umanità perpetrati dalle forze dei due contendenti. Già in febbraio, in un rapporto pubblicato dopo una missione nel Paese, la Federazione internazionale dei diritti dell’uomo, che raccoglie in tutto il mondo le principali organizzazioni attive nel settore, aveva sottolineato le responsabilità di Gbagbo in crimini contro l’umanità, stimando che da novembre appunto a febbraio sarebbero stati almeno quattrocento i civili trucidati dalle sue truppe.
Ma anche sulle forze di Ouattara pesano analoghe accuse. La giustizia ivoriana, dal canto suo, ha cominciato a interrogare Gbagbo, che si trova in stato di arresto nella località settentrionale di Korhogo, sua moglie Simone, detenuta a Odienné, nel nord est, e una quarantina di esponenti del suo deposto regime.
(©L'Osservatore Romano 10 maggio 2011)Nascono organismi regionali
In America Latina
si definiscono
nuove alleanze
Di Pierluigi Natalia
Nel mutamento in corso degli assetti geopolitici mondiali potrebbe avere un potenziale ruolo di rilievo la costituzione della Comunità degli Stati latinoamericani e caraibici (Celac), un nuovo organismo regionale del quale sono state gettate le basi in una riunione la scorsa settimana a Caracas tra i ministri degli Esteri di trenta Paesi dell’area. La Celac sarà formalmente costituita in un vertice dei capi di Stato fissato per il 5 e 6 luglio, sempre nella capitale venezuelana.
L’organismo nasce con una chiara vocazione latinoamericana e sembra destinato a porsi come alternativa all’Organizzazione degli Stati americani (Osa), che comprende anche Stati Uniti e Canada. Del resto, la nascita della Celac, su impulso di Cile e Venezuela, era stata annunciata nel febbraio 2010 al summit dei presidenti di Cancún, in Messico, proprio con l’obiettivo dichiarato di arginare l’influenza di Washington nella regione e di riequilibrare i rapporti continentali, considerati sbilanciati a vantaggio appunto degli Stati Uniti.
Il presidente venezuelano Hugo Chávez, in un intervento introduttivo ai lavori della riunione ministeriale, ha parlato di «un fatto storico». Ma anche esponenti di Governi su posizioni politiche lontane da quelle di Chávez hanno sposato la tesi dell’integrazione latinoamericana come freno a un condizionamento nordamericano sia sul piano politico sia su quello del modello di sviluppo. Non a caso, nel documento messo a punto per tracciare le linee guida della Celac si legge che l’organismo «dovrà innanzitutto promuovere l’integrazione regionale allo scopo di approfondire il nostro sviluppo sostenibile e dare impulso all’agenda regionale nei fori mondiali».
Per farlo, i Paesi aderenti intendono soprattutto aumentare la loro coesione. «Sarà il forum più importante della nostra regione. Stiamo costruendo l’architettura delle regole di base per il funzionamento di questa nuova istituzione, questo sogno di integrazione che Simón Bolívar forgiò per tutta l’America Latina e i Caraibi», ha dichiarato il vice ministro degli Esteri cileno, Fernando Schmidt. Da parte sua, il ministro degli Esteri argentino, Héctor Timerman, ha sottolineato l’importanza del nuovo meccanismo di concertazione «per non ritrovarci mai più divisi». Il documento costitutivo del Celac includerà tra l’altro una clausola democratica — un atto significativo in un continente che in epoche abbastanza recenti ha conosciuto diverse forme di dittatura, soprattutto militari — oltre a una clausola di non ingerenza nelle questioni interne dei Paesi, per garantire indipendenza e sovranità, che i vari Governi sudamericani, centroamericani e caraibici non intendono cedere. Già questo, come accade quasi completamente con l’Unione africana e in parte rilevante con la stessa Unione europea, potrebbe però inficiare la capacità dell’America latina di riuscire a parlare con una voce sola nei contesti internazionali, aumentando la propria capacità di contribuire a determinarne le scelte.
Ciò detto, la nascita del nuovo organismo non costituisce di per sé un declino dell’influenza statunitense. Nelle stesse ore nelle quali si varava la struttura della Celac, nasceva in una riunione a Lima tra i presidente di Perú, Colombia, Messico e Cile, un altro organismo regionale, orientato prevalentemente nel campo economico e commerciale, che avrà gli Stati Uniti come principale interlocutore. L’organismo, denominato Accordo del Pacifico o Accordo di integrazione profonda (Aip) intende mettere a punto politiche congiunte per rafforzare settori produttivi, servizi e investimenti, ma anche combattere uniti contrabbando e narcotraffico e il riciclaggio di denaro.
L’Aip si è data cioè in gran parte l’obiettivo a suo tempo dichiarato dal fallito progetto statunitense dell’Alca, l’Area di libero commercio delle Americhe. Secondo diversi analisti, l’Aip si pone inoltre, sul piano commerciale, in competizione con il Mercosur, il mercato comune di cui fanno parte Argentina, Brasile, Paraguay e Uruguay, con il Venezuela in via di adesione, ma anche con l’Unasur, l’Unione delle Nazioni sudamericane. Sul piano politico, l’Aip sembra destinata a fare da contrappeso soprattutto all’Alba, l’Alleanza bolivariana per le Americhe, promossa da Venezuela e Cuba. Più in generale, diversi analisti sostengono che l’Aip potrebbe vanificare proprio gli sforzi portati avanti da alcuni Paesi per liberarsi dell’ingerenza di Washington.