La condizione della Nigeria, il più popoloso Paese africano, con una stima di centosessanta milioni di abitanti, sembra farsi di giorno in giorno più grave, con una diffusione sempre maggiore delle violenze e al tempo stesso con la prospettiva di una brusca frenata dell'economia, basata in gran parte sulla produzione di petrolio. Alla riapertura dei lavori del Parlamento federale di Abuja dopo le ferie estive, il Governo del presidente Goodluck Jonathan è stato pesantemente messo sotto accusa per la mancanza di risultati nella lotta contro Boko Haram, il gruppo di matrice fondamentalista islamica responsabile nell'ultimo quinquennio, secondo stime concordi, dell'uccisione di diecimila persone in attacchi armati e attentati terroristici. Più in generale, molti osservatori interni e internazionali considerano completamente deluse le speranze di normalità democratica e soprattutto di uno sviluppo volto a favorire finalmente i ceti più poveri e maggioritari della popolazioni, speranze che in molti erano state suscitate tre anni fa proprio dall'elezione di Jonathan, in una consultazione tenuta, forse per la prima volta, in un modo sostanzialmente regolare e pacifico, nonostante alcuni limitati, seppur gravi episodi di violenza.
Il presidente del Parlamento, David Mark, ha detto che le azioni di Boko Haram «sono un’assoluta dichiarazione di guerra pronta a minacciare la sovranità della nostra Nazione» e ha chiesto al presidente Jonathan «chiarimenti sulle strategie che verranno utilizzate per sconfiggere i militanti islamisti», responsabili di sistematiche violenze ai danni dei civili sia musulmani sia soprattutto cristiani, costretti a fuggire o a convertirsi all’islam pena la morte. Un'altra affermazione inquietante fatta da Monguno è le forze di sicurezza sul posto sono evidentemente sopraffatte dalla situazione perché «prive delle motivazioni necessarie» per combattere i miliziani jihadisti. Tale tesi è seccamente smentita dai comandi militari, che continuano ad annunciare presunte sconfitte inflitte a Boko Haram, ma non possono negare una situazione sempre più grave, tra l'altro con centinaia di migliaia di persone in fuga.
La pratica della violenza in Nigeria, oltretutto, non sembra una prerogativa esclusiva di Boko Haram. Amnesty International accusa la polizia e l’esercito della Nigeria di torturare abitualmente donne, uomini e anche bambini di 12 anni mediante pestaggi, stupri e fucilate agli arti. «Qui siamo oltre le già agghiaccianti torture e uccisioni di presunti membri di Boko Haram. In tutta la Nigeria, la dimensione e la gravità delle torture contro donne, uomini e minori da parte di chi dovrebbe proteggerli risultano sconvolgenti anche al più esperto osservatore sui diritti umani», ha dichiarato Netsanet Belay, direttore della ricerca, secondo il quale nessuna indagine degna di questo nome è stata aperta dalle autorità di Abuja nella maggior parte dei casi di tortura commessi dalle forze di sicurezza nigeriane e documentati da Amnesty International.
Al tempo stesso, restano irrisolti i problemi strutturale del Paese, anche per quanto riguarda il modello di sviluppo. Il petrolio, infatti, resta una ricchezza in mani straniere e, anzi, una voce sulla quale pesa sempre più la speculazione finanziaria. Per esempio, poche settimane dopo l’anglo-olandese Royal Dutch Shell, anche i francesi di Total hanno annunciato la messa in vendita di un giacimento petrolifero nell’area del Delta del Niger. La cessione riguarda Usan, un campo offshore situato circa cento chilometri a largo della costa della Nigeria sud-orientale. Fonti di stampa locali stimano il valore del giacimento in circa due miliardi e mezzo di dollari. E tendono ad escludere, alla luce della necessità di investimenti infrastrutturali ingenti, la possibilità di acquirenti nazionali privi delle risorse indispensabili.
Secondo il quotidiano di Lagos «Business Day», a rilevare la quota di Total potrebbero essere gruppi cinesi come Cnooc o indiani come Ongc. Secondo il giornale, infatti, «le major europee e nordamericane stanno cercando di lasciare la Nigeria». A testimoniarlo sarebbe la messa in vendita di quattro giacimenti da parte di Shell, annunciata a luglio, e la già avvenuta cessione di un campo da un miliardo e mezzo di dollari da parte dei nordamericani di ConocoPhilips. Il quotidiano attribuisce queste decisioni a fattori differenti. In parte peserebbero i sabotaggi da parte di gruppi armati e soprattutto gli incidenti dovuti all’obsolescenza degli impianti che costerebbero ogni giorno all’industria circa 150.000 barili di greggio, oltre a provocare danni ambientali sempre maggiori. Ma il motivo fondamentale sembra essere la volontà dei poteri finanziari occidentali di ridurre gli investimenti e di mantenere alti i dividendi per gli azionisti.
Anche in questo campo, sono in molti a considerare fallimentare l'azione di Jonathan. In campagna elettorale, il presidente aveva promesso una “rivoluzione del gas” che doveva valere dieci miliardi di dollari e mezzo milione di posti di lavoro. Per essere davvero tale, però, questa rivoluzione avrebbe dovuto guardare più alla distribuzione che alla produzione, già di per sé rilevante. Soprattutto, la Nigeria era ed è chiamata ad affrancarsi da un sistema economico che ha lasciato al proprio popolo solo le briciole dell'immane ricchezza delle risorse del suo sottosuolo, che ne fanno il primo Paese produttore di petrolio in Africa e l'ottavo nel mondo. Finora l'esportazione di greggio ha prodotto ricchezza solo per le compagnie multinazionale e per alcune oligarchie locali e non è stata capace di portare né lavoro né benessere ai nigeriani