C'è una sorta di assuefazione, se non d'indifferenza, ai cambiamenti climatici, che pure rappresentano uno dei maggiori fattori di rischio per l'umanità intera. Se ne sta avendo una sorta di riprova in queste ore che precedono l'apertura dell'Assemblea generale dell'Onu a New York. L'attenzione delle diverse delegazioni nazionali – per non parlare di quella di chi fa il mio mestiere – è fissata sugli sviluppi delle crisi internazionali in Ucraina e nel Vicino Oriente (magari con discussioni da bar su presunte guerre di religione) e al vertice convocato dall'Onu appunto sul clima si riserva appena quel minimo di cortesia dovuto al padrone di casa durante una cerimonia mondana nella quale i protagonisti sono ben altri. Né a catalizzate l'attenzione dei potenti, more solito, sono valse le manifestazioni di piazza tenute a New York (da oltre trecentomila persone) e in altre città del mondo (il che ha portato il totale a un milione) proprio per non far tramontare la sensibilità dell'opinione pubblica mondiale su questo cruciale argomento.
Al vertice partecipano oltre centoventi tra capi di Stato e di Governo per discutere su come ridurre le emissioni di gas serra, fermare la deforestazione e aiutare i Paesi più vulnerabili a difendersi dagli effetti del surriscaldamento globale, come siccità prolungate, fenomeni atmosferici violenti e innalzamento del livello dei mari. Ma prevale una sorta di accettazione del “già visto”, una convinzione diffusa che non si tratta di un'occasione per cercare - finalmente – scelte condivise, ma dell'ennesima messa in scena delle divisioni tra Paesi ricchi e poveri. E non solo.
In estrema sintesi, bisognere limitare a un massimo di 2 gradi celsius il riscaldamento globale rispetto all’era pre-industriale. Ma dopo i fallimenti delle ultime conferenze internazionali sul clima, quelle i di Copenaghen nel 2009 e di Durban nel 2011, le prospettive di successo della prossima, a Parigi nel 2015 – quando si dovrà ridiscutere il Protocollo di Kyoto in scadenza (A sua volta fallimentare) - sembrano vicine a zero. Secondo gli studi più accreditati, se le emissioni si manterranno al livello attuale, entro la fine del secolo le temperature si alzeranno ancora di 4-5 gradi, il che significherebbe carestie devastanti per miliardi di persone. Già nel 2003, le emissioni di gas serra, lungi dal diminuire, a livello globale sono cresciute del 2,3 per cento, toccando nuovi livelli record. A questo non lusinghiero risultato contribuiscono in particolare tre Paesi, e due più popolosi e quello più industrializzato. Il 57 per cento delle missioni di gas serra si registrano in Cina, il 17 per cento in India e il 20 per cento negli Stati Uniti. E non è un bel segnale che al vertice a New York manchino sia il presidente cinese, Xi Jinping, sia il premier indiano, Narendra Modi. C'è invece Obama che sulla dichiarata scelta ambientalista nel 2008 non solo vinse le elezioni, ma ebbe pure il premio Nobel, ma anch'egli non può certo presentare un bilancio positivo. Negli Stati Uniti, infatti, la situazione è peggiore del previsto, dato che lo scorso anno le emissioni sono salite del 2,9 per cento.
Per una volta, al contrario, gli europei possono vantare risultati. Il continente L’Europa, che un tempo era il maggiore inquinatore (e che ad Est fa ancora abbondantemente la sua parte in questo senso) ha fatto scendere i gas serra al punto tale che le emissioni globali del mondo, sia pure ancora altissime, sono state tagliate dell’11 per cento rispetto a quanto sarebbe accaduto senza l’impegno dell’Unione europea. Di quella istituzione, cioè, che populisti e furbetti di ogni suo Paese, giudicano colpevole di ogni nefandezza. Almeno in questo, dunque, l'Unione europea si fa costruttrice di pace e dà una possibilità al futuro, alle nuove generazioni.