Non si annuncia facile né veloce il successo della Minusca, la missione dell’Onu che domani subentra formalmente nella Repubblica Centroafricana alla Misca, quella dispiegata dai Paesi dell’area da un anno e mezzo. «Il nostro compito ha un triplice obiettivo: proteggere la popolazione, appoggiare il processo politico, contribuire al ripristino dell’autorità dello Stato», ha detto il generale senegalese Babacar Gaye, che prenderà il comando della Minusca, durante una cerimonia nell’aeroporto della capitale Bangui.
Nella sua nuova denuncia della guerra - pazzia «dalla quale l’umanità non ha ancora imparato la lezione» - Papa Francesco all'Angelus di oggi ha fatto riferimento, fra l'altro, proprio al conflitto centroafricano e alla missione voluta dalle Nazioni Unite per favorire la pacificazione del Paese e proteggere la popolazione civile. Francesco ha assicurato «l’impegno e la preghiera della Chiesa cattolica» e incoraggiato «lo sforzo della comunità internazionale», auspicando che «la violenza ceda il passo al dialogo» e che «gli opposti schieramenti lascino da parte gli interessi particolari e si adoperino perché ogni cittadino, a qualsiasi etnia e religione appartenga, possa collaborare» al bene comune.
Tre mesi dopo la risoluzione 2.149 del Consiglio di sicurezza che ne prevedeva l’invio, si formalizza dunque la presenza dei caschi blu della Missione integrata multidimensionale delle Nazioni Unite di stabilizzazione in Centroafrica (appunto Minusca). In realtà, almeno per il momento, si tratta sostanzialmente di un avvicendamento di comando, come ha sottolineato lo stesso Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-noon, in una nota diffusa oggi. Sotto le insegne dell’Onu, infatti, restano per ora circa seimila soldati della Misca. Entro la fine del mese si dovrebbe completare una prima fase del dispiegamento dei caschi blu, 7.600 uomini su un totale di 12.000 previsto dalla risoluzione dell’Onu. Nel Paese, intanto, restano anche i circa duemila soldati del corpo di spedizione inviato autonomamente dalla Francia, affiancato da un primo contingente dell’Eufor, la missione stabilita dall’Unione europea, compresi un gruppo di genieri italiani.
A ostacolare il compito dei caschi blu, però, concorrono l’insicurezza persistente, la fragilità delle istituzioni di transizione imposte dalla comunità internazionale e guidate dalla presidente Catherine Samba-Panza e la mancanza di risorse economiche per ricostruire un Paese già di per sé tra i più poveri al mondo, nonostante non trascurabili risorse minerarie, e ormai devastato dal conflitto civile. Appena una settimana fa, tra l’altro, il Consiglio nazionale di transizione ha ammesso l’impossibilità di rispettare i tempi annunciati, confermando quanto previsto da gran parte degli osservatori. «Nel contesto attuale, è tecnicamente impossibile tenere le elezioni presidenziali e legislative alla scadenza programmata del febbraio 2015», ha infatti dichiarato il presidente del Parlamento provvisorio, Alexandre-Ferdinand Nguendet.
L’autorità dello Stato al quale i caschi blu devono dare sostegno è il Governo del primo ministro Mahamat Kamoun, varato a fine agosto, al quale partecipano anche rappresentanti delle milizie armate. Queste però non hanno finora dato alcun segnale concreto della volontà di mettere fine al conflitto.
La crisi nella Repubblica Centroafricana, latente per almeno un decennio e aggravata da quella finanziaria ed economica internazionale, è esplosa in pratica a fine 2012, con la ribellione armata della Seleka (alleanza, in lingua locale sango) contro il presidente François Bozizé, andato al potere con un colpo di Stato nel 2003, e poi confermato dalle urne.
Dopo un primo accordo che li aveva portati a partecipare al Governo, i leader della Seleka avevano rovesciato Bozizé con un colpo di Stato nel marzo 2013, prima di essere costretti a lasciare il potere dalle pressioni internazionali che hanno portato ad avviare la transizione politica, ma che non hanno appunto fermato le violenze.
Alla Seleka — originariamente composta da poche centinaia di oppositori politici di Bozizé ma poi rafforzata da migliaia di combattenti stranieri di matrice fondamentalista islamica, provenienti soprattutto da Sudan e Ciad — si sono opposte le milizie cosiddette antibalaka (balaka, sempre in sango, significa machete, in riferimento all’arma degli avversari). Gli antibalaka, originariamente gruppi di autodifesa, hanno poi a loro volta perpetrato sistematiche violenze contro le popolazioni musulmane, al punto che nei mesi scorsi lo stesso Ban Ki-moon si era spinto a parlare di pericolo di genocidio.
Come noto, le violenze hanno assunto anche un carattere di scontro tra islamici e cristiani, completamente estraneo fino ad appena un paio di anni fa all’esperienza del Paese, dove la minoranza musulmana ha sempre vissuto in pace con la maggioranza cristiana. A conferma di tale rispetto vicendevole e di un comune impegno per le ragioni della pace, dall’inizio dell’anno l’imam Oumar Kobine Layama, presidente della Comunità islamica centroafricana, è ospitato nella casa dell’arcivescovo di Bangui, monsignor Dieudonné Nzapalainga, e i due sono continuamente impegnati in missioni congiunte in ogni parte del Paese volte a sostenere la riconciliazione e la pace e a testimoniare l’amicizia tra le due religioni, contro la quale si finalizza l’azione dei fondamentalisti. Come in tante simili crisi in Africa e non solo, tale azione ha trovato alimento e consenso in un contesto sociale segnato da forti ingiustizie e da scontri di interessi e di potere, in particolare sul controllo delle risorse minerarie del Paese, soprattutto diamanti.