«Per gli uomini, la libertà nella propria terra è l’apice delle proprie aspirazioni. Niente li può distogliere da questa meta. Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili condizioni alle quali il mio popolo è soggetto fuori dalle prigioni, in questo Paese». E ancora: «Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza e come criminali di fronte a questa corte dovrebbero essere portati i membri del Governo». Nelson Rolihlahla Mandela pronunciò queste parole davanti ai giudici che gli inflissero l’ergastolo nel 1963. Per Mandela non occorre attendere “l’ardua sentenza” dei posteri. Per una volta, la verità è chiara ai contemporanei, così come era chiara a lui in quel giorno.
Ci sono persone che già in vita hanno meritato di essere riconosciuti come pilastri della storia mondiale sul piano della statura morale e dell’impegno in favore degli altri. È stato così per Madiba, il nome tribale affettuoso con il quale il suo popolo chiamava Mandela, che ha speso la sua esistenza prima nella lotta contro l’apartheid e per la libertà per il suo popolo e poi nello sforzo di costruire pace e riconciliazione, senza piegarsi mai alle ingiustizie né alla sofferenza privata che pure non lo ha risparmiato.
Ma la sua non è stata una vicenda solo personale e neppure solo nazionale. Le decisioni giunte da tutto il mondo, a partire dal presidente statunitense Barack Obama e dall’Unione europea, di mettere bandiere a mezz’asta è espressione significativa di un lutto universale.
A Mandela non appartenne la scelta assoluta della non violenza, come fu per Gandhi. Mandela passò infatti alla clandestinità dopo il massacro di Shaperville, quando in Sud Africa il potere bianco eliminò volontariamente una settantina di esponenti dell’African National Congress (Anc), la formazione alla quale aveva aderito nel 1944 diventandone il leader nelle campagne contro l’apartheid. Da allora, Mandela guidò l’Anc decisa ad abolire, anche con il ricorso alle armi, quel regime che imponeva sul piano legale e giuridico la segregazione e lasciava i neri privi di diritti.
La convinzione della giustizia di quell’azione fu tale che quando nel 1985, dopo oltre vent’anni di carcere, l’allora presidente Pieter Willem Borha gli offrì la libertà purché rinnegasse la guerriglia, Mandela rifiutò. Aveva infatti la certezza che quell’offerta implicasse un riconoscimento implicito di aver condotto non una battaglia di libertà, ma una mera sovversione armata.
A spingere Botha era il tentativo di disinnescare, con un provvedimento giuridico che qualificasse Mandela un personaggio predisposto alla violenza, l’onda d’urto contro il regime segregazionista che si espandeva nell’opinione pubblica internazionale.
Anche in carcere, infatti, Mandela restò il simbolo e la testa pensante della ribellione, mentre la sua immagine e la sua statura crescevano sempre più. Libero lo diventò nel 1990, senza condizioni, quando le pressioni mondiali erano ormai tali da non lasciare alternative al regime segregazionista ormai al tramonto.
Tre anni dopo fu insignito del premio Nobel per la pace e il 27 aprile 1994 si insediò alla presidenza del suo Paese, dopo le prime elezioni libere alla quali parteciparono i neri.
L’Africa era in quei giorni al centro dell’attenzione mondiale, nel bene e nel male. A Roma si stava svolgendo il primo Sinodo sull’Africa, aperto il 10 aprile 1994, convocato e presieduto da Giovanni Paolo ii, che parlò di continente della speranza.
Ma in quello stesso aprile, in Burundi e soprattutto in Rwanda si scatenavano le violenze tra tutsi e hutu che avrebbero causato il genocidio dei primi.
Assumendo il potere, Mandela era cosciente della responsabilità e lucido sui pericoli che esso comportava. Visse il suo mandato in modo lungimirante e pragmatico, per liberare il Paese dal giogo del razzismo culturale e istituzionale, ma anche per promuovere la pacificazione tra popolazioni dilaniate dall’odio e dalla violenza.
La sua prima decisione fu infatti l’insediamento della Truth and Riconcilation Commission, la Commissione per la verità e la riconciliazione, per fermare la micidiale spirale delle vendette tra vittime e carnefici.
Lasciò il potere dopo quattro anni, al compimento degli ottant’anni — era nato il 18 luglio 1918 — nella convinzione, praticamente unico caso nella storia africana segnata da leadership a vita, che occorressero forze più giovani.
Prima di allora aveva vinto un’altra battaglia. Trentanove case farmaceutiche gli intentarono un processo per aver promulgato nel 1997 il Medical Act, una legge che permetteva al Governo del Sud Africa di importare e produrre medicinali per la cura dell’Aids a prezzi sostenibili, senza sottostare ai costi imposti dai titolari dei brevetti.
Anche in questo caso, l’opinione pubblica mondiale lo sostenne in nome di una giustizia sostanziale che spesso confligge con le regole del commercio mondiale. E le multinazionali del farmaco dovettero desistere dal proseguire la battaglia legale.
A conclusione della sua autobiografia, Il cammino verso la libertà, si legge: «Ho percorso questo lungo cammino verso la libertà sforzando di non esitare, e ho fatto alcuni passi falsi lungo la via. Ma ho scoperto che dopo aver scalato una montagna ce ne sono sempre altre da scalare. Adesso mi sono fermato un istante per riposare, per volgere lo sguardo allo splendido panorama che mi circonda, per guardare la strada che ho percorso. Ma posso riposare solo qualche attimo, perché assieme alla libertà vengono le responsabilità, e io non oso trattenermi ancora: il mio lungo cammino non è ancora alla fine».
Probabilmente non lo è neppure ora, perché la strada di simili personalità si prolunga nella storia. Né lo è il cammino di quanti lo hanno amato e rispettato e ora devono viverne e tramandarne la lezione: i contemporanei di Mandela che da oggi sono i suoi posteri.
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Universale cordoglio per la morte di Nelson Mandela
Il mondo
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6 dicembre 2013 |