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Nel mondo 250.000 bambini soldato

Nel mondo 250.000 bambini soldato - Pierluigi Natalia

 

Il gioco atroce

  

della guerra

  

  

  

11 febbraio 2014

  

Sono ancora più di  250.000 i bambini e gli adolescenti arruolati per combattere le guerre o per servire nelle diverse milizie belligeranti nel mondo, praticamente in stato di schiavitù, anche sessuale. Nella cifra sono compresi anche i minori di diciotto anni arruolati in eserciti regolari, ma il fenomeno  riguarda soprattutto le bande armate protagoniste dei conflitti oggi in atto nel mondo. La maggior parte dei rapporti internazionali, pur sottolineando che stime precise sono impossibili, sostengono  che i bambini soldato sono  in aumento.
La Giornata internazionale contro l’uso di bambini soldati, che si celebra il  12 febbraio,  viene a ricordare che c’è molto da fare per rendere effettiva l’applicazione del protocollo opzionale  alla Convenzione dell’Onu sui diritti del fanciullo, firmato in quella data del 2002. Il protocollo stabilisce che  nessun minore di 18 anni può essere reclutato e  utilizzato direttamente nelle ostilità. L’avverbio direttamente è una concessione a quegli Stati in cui esistono scuole militari anche per minorenni o nei quali, comunque, è consentito il loro arruolamento.
Secondo l’Onu, ci sono ancora bambini soldato in  35 Paesi. La maggioranza ha dai 15 ai 18 anni, ma alcuni ne hanno anche meno di dieci   e  c’è  una tendenza  evidente all’abbassamento dell’età media.
Nessun continente è estraneo al fenomeno, neppure l’Europa, come documentano diversi esempi registrati nei conflitti caucasici. Ma certo l’Occidente è risparmiato da un fenomeno legato alle guerre parcellizzate, condotte da gruppi  armati che ripropongono, nel terzo millennio, il fenomeno delle compagnie di ventura medievali europee, abituate a porsi al soldo di un offerente, ma anche a mantenersi con le risorse dei territori.
Se questa realtà è in diminuzione in America latina e in gran parte dell’Asia, in Medio Oriente è stato il conflitto siriano a dimostrare che tale pratica è tutt’altro che un retaggio del passato. È dei giorni scorsi una nuova denuncia del Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, di arruolamenti di minori nei campi profughi a opera delle diverse formazioni ribelli, ma anche di milizie filogovernative.
Tuttavia, è perpetrata soprattutto in Africa la tragica consuetudine di  utilizzare bambini e bambine  per fare la guerra, direttamente o indirettamente, per esempio  con il loro impiego  come scudi umani o per trovare passaggi nei campi minati, o anche per servire da schiavi per i combattenti. Negli ultimi anni,  ad accrescere il fenomeno hanno contribuito le crisi nel Maghreb, in Mali, in Sudan, nella Repubblica Centroafricana e  nel Corno d’Africa. Ma resta una condizione usuale anche nella devastata regione dei Grandi Laghi, già teatro di quella che venne considerata la prima guerra mondiale africana.
Nell’est congolese —  e non solo —   gli arruolamenti di minori, spesso con pratiche atroci, restano una piaga quotidiana. A questo si aggiunge la connessione perversa fra traffico di armi (prodotte nei Paesi ricchi: in Africa non ce n’è neppure una fabbrica) e uso delle milizie per garantirsi il controllo a basso prezzo delle immani risorse minerarie dell’area.
Anche nel passato i ragazzi sono stati usati come soldati — e non mancano nelle letterature di tutti i Paesi retoriche esaltazioni di minorenni pronti a combattere e a sacrificarsi —  ma è stato soprattutto nella nostra epoca che il fenomeno si è ingigantito, perché  è cambiata la natura dei conflitti. Basti pensare che fino alla prima guerra mondiale i  civili rappresentavano  il 5 per cento delle vittime, mentre oggi sono il 90 per cento.  Né ha scarso rilievo  il fatto che l’uso di armi automatiche e leggere abbia reso più facile l’arruolamento dei minori.  Un bambino di dieci anni può  usare un AK-47 come un adulto.
I ragazzi, poi, non chiedono paghe,  si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto — il che vale anche per i gruppi terroristici —  e affrontano il pericolo con maggior incoscienza,  per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie.
Inoltre la lunghezza dei conflitti rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite e in Paesi dall’età media bassissima lo si fa arruolando i ragazzi.  Paradossalmente, questo accresce i rischi per le popolazioni civili: in molti casi, anche quando non sono imbottiti di droghe come è prassi abituale nella gran parte dei gruppi armati, i bambini soldato hanno meno  autocontrollo dei miliziani adulti e diventano combattenti  “dal grilletto facile”.
L’azione internazionale contro l’uso dei bambini soldato è tra le più difficili non solo sul piano della prevenzione, ma anche su quello del recupero e del reinserimento sociale di quelli che si riesce a sottrarre a tale condizione. Per i ragazzi che sopravvivono alla guerra e non hanno riportato ferite o mutilazioni, le conseguenze sul piano fisico sono comunque gravi: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell’apparato sessuale, incluso l’Aids. Inoltre ci sono le ripercussioni psicologiche dell’essere stati  testimoni o  protagonisti di atrocità.
Gravi sono anche le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell’inserirsi nuovamente in famiglia spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Per le ragazze, tra l’altro,  il reinserimento sociale e la stessa riaccoglienza in famiglia sono difficilissimi e questo si traduce in una prospettiva di emarginazione e di  degrado.