Il rinvio delle elezioni presidenziali e parlamentari in Nigeria, previste per sabato prossimo e ora fissate al 28 marzo, conferma che la sfida portata da Boko Haram è destinata a incidere sull’esito del voto nel più popoloso Paese africano (oltre centosessanta milioni di abitanti) pur non essendone l’unico fattore. Tra l’altro, la consultazione potrebbe mettere a dura prova lo schema che si sussegue da quando è caduta la dittatura militare nel 1999. Stavolta, infatti, non è detto che il sud voti per i candidati cristiani e il nord per quelli islamici. Soprattutto, non sembra più esserci tra i candidati una divisione netta su basi confessionali.
Per quanto riguarda il voto presidenziale, la questione di Boko Haram è destinata comunque a essere determinante. La sfida che l’ex generale Muhammadu Buhari, a suo tempo alla guida della giunta militare dittatoriale, pone al presidente Goodluck Jonathan, che si ricandida, punta proprio sulla lotta al gruppo islamista. Buhari, che è musulmano, ha impostato l’intera campagna elettorale sulla promessa di una lotta senza quartiere a Boko Haram accusando il rivale di aver svolto un’azione inefficace.
Da parte sua, dopo sistematiche sconfitte, Jonathan ha potuto registrare nelle ultime settimane alcuni successi militari, grazie anche all’azione congiunta con le forze dei Paesi confinanti, in particolare Camerun e Ciad, anch’essi minacciati da Boko Haram. E su tali sviluppi sembra puntare in prospettiva elettorale. Non a caso, il People’s Democratic Party, la formazione di Jonathan, ha accolto con favore il rinvio del voto. Nelle ultime ore, tra l’altro, del successo militare contro Boko Haram si è detto certo il ministro federale dell’Interno, Abbo Moro, secondo il quale queste sei settimane saranno sufficienti ad assicurare la regolarità del voto anche nelle zone oggi teatro di guerra, in particolare gli Stati del Borno, dello Yobe e dell’Adamawa. Lo stesso Jonathan ha dichiarato che in nessun caso ci saranno proroghe del suo attuale mandato, che scade a maggio, e che quindi le elezioni devono essere tenute.
Diametralmente opposta è invece la valutazione dell’All Progressives Congress (Apc), la coalizione di opposizione che appoggia Buhari, secondo la quale il rinvio certifica comunque un passo indietro per la democrazia, un giudizio condiviso da diversi rappresentanti della società civile e leader religiosi, oltre che da soggetti internazionali come Stati Uniti e Unione europea.
Più in generale, sembrano in gran parte vanificate le speranze suscitate quattro anni fa dalla rielezione di Jonathan: non pochi osservatori l’avevano infatti considerata un segnale di normalità democratica e una promessa di sviluppo che favoriva finalmente i ceti più poveri e maggioritari della popolazione. Jonathan ha dalla sua alcuni impegni mantenuti, in particolare riguardo alla realizzazione di strade, ferrovie e altre infrastrutture. Tuttavia è generalizzata — e presente persino all’interno del suo partito — l’accusa di non aver avuto polso nella lotta alla corruzione e a Boko Haram, se non altro perché l’esercito era sembrato obbedirgli sempre di meno.
La guerra nel nord-est, inoltre, ha oscurato i relativi miglioramenti ottenuti in termini di affrancamento da un sistema economico che ha lasciato al popolo solo le briciole dell’immane ricchezza delle risorse del sottosuolo, che fanno della Nigeria il primo Paese produttore di petrolio in Africa e l’ottavo nel mondo. L’esportazione di greggio ha continuato a produrre ricchezza per le compagnie multinazionali e per alcune oligarchie locali e non è stata capace di portare né lavoro né benessere a una popolazione che in stragrande maggioranza vive sotto la soglia di povertà.
Un elemento di rottura del tradizionale schema di contrapposizione tra cristiani e musulmani potrebbe risultare la capacità dell’Apc di cooptare dirigenti di peso originari delle regioni meridionali, almeno in teoria roccaforti di Jonathan. Il Pdp ha infatti subito molte defezioni a vantaggio dell’Apc, dove ora figurano anche apprezzati dirigenti originari del sud, come il governatore di Lagos, Babatunde Raji Fashola.
Ciò nonostante, in molti giudicano Jonathan ancora il favorito. Tra l’altro, il rinvio potrebbe portare al voto i sostenitori che egli in qualche modo conserva nei tre Stati teatro dell’azione di Boko Haram, cioè il Borno, lo Yobe e l’Adamawa. Va ricordato che in base alla Costituzione per essere eletto presidente al primo turno un candidato deve ottenere, oltre alla maggioranza assoluta dei voti totali, almeno il 25 per cento dei consensi in almeno 24 dei 36 Stati. Di contro, se dal conteggio dovessero uscire o essere contestati i voti del Borno, dello Yobe e dell’Adamawa, le possibilità di Buhari in termini di consensi assoluti sarebbero notevolmente ridotte.
L'esito più paventato da gran parte dei rappresentanti delle organizzazioni della società civile e dagli stessi leader religiosi, sia cristiani sia musulmani, è comunque quello di una vittoria di stretta misura di Jonathan o di Buhari, che finirebbe per alimentare contestazioni e tensioni gravi, riproponendo violenze diffuse.