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Il (preoccupante) laboratorio Addis Abeba

Il (preoccupante) laboratorio Addis Abeba - Pierluigi Natalia

Etnia

  

e sviluppo

  

urbano

  

9 maggio 2014

 

Gran parte delle notizie che giungono dall'Africa nel nord ricco del mondo sono datate da Addis Abeba. La capitale etiope, infatti, è sede permanente di oltre un centinaio tra organizzazioni regionali e internazionali, a partire dall'Unione africana, ma anche dall'Uneca, la Commisione economica dell'Onu per l'Africa. Oltretutto, tra le capitali africane è probabilmente quella meglio collegata per via aerea con il resto del mondo, grazie alle ottanta destinazioni giornaliere assicurate dalla compagnia di bandiera Ethiopian Airlines. Ma non sempre questa rete di circolazione di persone e di notizie trattiene alcuni aspetti pure cruciali per conoscere l'Etiopia e le sue dinamiche.

 

Tra questi, per esempio, c'è la questione etnica, che in Etiopia – un Paese mai colonizzato dagli europei - ha caratteristiche proprie e in parte diverse da quelle di altri scenari continentali, almeno sotto l'aspetto del modello di società. In questo Addis Abeba costituisce un laboratorio, secondo alcuni preoccupante, nel quale gli annosi contrasti etnici interni si alimentano anche con gli scontri sul tipo di presunta modernizzazione perseguita dalla classe dirigente. Un modello, in estrema sintesi, molto occidentale, che punta su urbanizzazione e aumento dei consumi. Il che, in un Paese che resta poverissimo, accresce spesso le situazioni di emarginazione e disagio sociale.

 

La questione etnica, per esempio, ha avuto un peso evidente nei disordini di piazza che a inizio mese hanno fatto registrare almeno nove morti ad Addis Abeba. A determinarli è stato l'Integrated Development Master Plan (Idmp), il piano urbanistico per l'espansione della città presentato a inizio aprile dal Governo del primo ministro Hailemariam Desalegn. Protagonisti delle manifestazioni, duramente represse dalla polizia, sono stati gli studenti di etnia oromo, che con oltre venticinque milioni di persone, cioè il 35 per cento dell'intera popolazione, ne costituisce la componente più numerosa. L'Idmp prevede un ampliamento dell’area urbana di oltre un milione di ettari. A lavori ultimati – secondo quanto apparso sulla stampa nazionale – la città dovrebbe coprire una superficie pari a venti volte quella attuale. Gli oromo temono che questo ampliamento avvenga ai danni delle loro terre ancestrali già in gran parte finite sotto il controllo dei tigrini, l'élite minoritaria da secoli al potere.

 

Del resto, proteste sullo sviluppo urbanistico di Addis Abeba ci sono sempre state da quando l’imperatore Menelik II (quello che si fidava degli italiani) nel 1886 vi trasferì la capitale. L'ultimo esempio risale al 2001 quando le espropriazioni di terreni limitrofi e lo sgombero coatto di residenti oromo dai loro villaggi alla periferia della capitale innescò una serie di manifestazioni e disordini repressi nel sangue. C'è comunque da aggiungere – in questo senso sono fonti abbastanza attendibili i vescovi locali – che l’opposizione fomenta questo malcontento e che anche per questo motivo il dialogo tra le etnie non è stempre sereno, per usare un eufemismo, sebbene l’Etiopia sia uno Stato federale su base etnica, in cui poteri significativi sono riconosciuti sia alle autorità regionali sia a quelle tradizionali delle comunità.

 

Va specificato che Addis Abeba costituisce una enclave amministrativamente autonoma nel cuore della regione appunto di Oromia. In base alla Costituzione, che divide il territorio in Stati federali, la città gode di uno statuto speciale ed è governata da un sindaco di diretta espressione governativa. Quelli che non risultano chiaramente definiti sono però i confini di tale enclave (è come se negli Stati Uniti il Governo potesse consentire che Washington D.C., il dipartimento della capitale federale, si mangiasse mezza Virginia).

 

La grande stampa internazionale non ha dato molto spazio a quanto sta accadendo nella capitale etiope. Rispetto al 2001 la novità è però la crescita della rete internet. Questa volta la protesta ha superato i confini nazionali, grazie soprattutto alla folta diaspora etiope in giro per il mondo e si è diffusa sui social network e su Twitter (con l'hashtag dal significativo nome #Oromoprotest).

 

Sul piano politico, a colpire è invece una mancanza di novità almeno all'apparenza sorprendente. Il Governo contestato oggi, come detto, è quello di Hailemariam Desalegn, subentrato da meno di due anni Meles Zenawi, morto il 20 agosto 2012 dopo essere stato ininterrottamente al potere in Etiopia per oltre vent’anni. Uno dei primi e significativi provvedimenti presi da Hailemariam aveva infatti riguardato un'apertura negoziale nel più annoso conflitto etnico in Etiopia, quello con i somali dell'Ogaden, con un'indiscutibile svolta rispetto alle politiche militari repressive applicate dal suo predecessore. Tra l'altro, nel 2006 Meles aveva anche costituito una specifica milizia autoctona tigrina per combattere la ribellione del Fronte di liberazione nazionale dell’Ogaden (Onlf).

 

Peraltro, il tentativo negoziale era subito fallito, anche in questo caso per motivi legati alla Costituzione. L'Onlf, che è un movimento da quarant'anni ostinatamente secessionista, aveva infatti rifiutato la richesta di Addis Abeba di accettare come precondizione allo svolgimento dei negoziati (che si sarebbero dovuti tenere in Kenya con la mediazione del Governo di Nairobi) la sottoscrizione della Costituzione dell’Etiopia. Secondo alcuni commentatori, il mutamento di posizioni nel passaggio da Meles ad Hailemariam era però appunto solo apparente e questa richesta era un modo di negare con i fatti la dichiarata volontà di negoziare, dato che la Costituzione stabilisce non solo l'inviolabilità del territorio, ma anche la titolarità del Governo a esprimervi piena sovranità. Il movimento indipendentista rivendica invece il diritto all’autodeterminazione del popolo ogadeni e sulla Costituzione vuole nella regione. «Abbiamo lottato contro gli etiopi dal 1984 e la Costituzione è stata adottata nel 1994. Quindi non siamo costretti a riconoscerla», ricordò all'epoca del fallito negoziato uno dei leader dell’Onlf in una intervista rilasciata al periodico Africa Report.

 

L’anno dopo, la crisi nell'Ogaden, sostanzialmente ignorata per quarant'anni dai grandi circuiti d'informazione internazionali – con le solite eccezioni della stampa cattolica in genere e missionaria in particolare – era balzata improvvisamente agli onori della cronaca per un attacco alle installazioni petrolifere gestite nella regione da compagnie cinesi, nel quale furono uccisi 76 lavoratori, sei appunto cinesi e il resto locali. Il che, per inciso, conferma che tra le cause principali della tragedia delle popolazioni somale, sotto qualunque autorità si ritrovino, ci sono gli interessi internazionali sul petrolio sul quale letteralmente galleggiano i loro territori.

 

Al fallimento del negoziato con l'Onlf fa ora seguito la nuova crisi ad Addis Abeba, dove sempre di interessi economici si tratta, anche se non di petrolio. Lo sviluppo urbanistico di una città di quattro milioni di abitanti, non molti più di Roma, ma su una superfice già dieci volte maggiore, suscita appetiti rilevanti non solo tra le classi dirigenti etiopi, ma anche nelle compagnie internazionali, comprese quelle della Cina, che in Etiopia ha interessi sempre più rilevanti (tra l'altro, parlando di edilizia, sono stati proprio i cinesi a costruire il grattacielo di Addis Abeba dove ha sede l'Unione africana).

 

   Il rischio è che l'enfasi sul modello di sviluppo fatto di cemento e di urbanizzazione massiccia - al quale l'Etiopia è riuscita finora a sottrarsi, mantenendo, sia pure tra enormi difficoltà, i propri stili di vita tradizionali – cancelli i successi economici e sociali che pure negli ultimi anni ci sono stati, con benefici anche nelle aree rurali, per esempio debellando malattie un tempo mortali. 

 

E ancora maggiore è il timore che tutto questo dia nuovo alimento ai conflitti etnici in un Paese dove non sono certo un'esclusiva dei somali dell'Ogaden. In diverse regioni, infatti, operano gruppi armati come appunto il Fronte di liberazione oromo, nel sud; il Movimento democratico del popolo tigray, nella regione di Asmara; il Fronte di liberazione di Gabela e il Movimento di liberazione benishangun, nell’ovest; il Movimento di liberazione afar, nel nord est. A questi si aggiunge il Ginbot 7, un movimento presente in tutto il territorio. Il Ginbot 7 fu messo al bando da Meles nel 2009 in base a una delle tanti leggi passate sotto la dicitura antiterrorismo (non solo in Etiopia o in Africa) ma resta fortemente attivo, se non altro grazie agli aiuti finanziari della diaspora etiope negli Stati Uniti.