Ci sono voluti più di vent'anni, ma finalmente è stato riaperto a Sarajevo il ricostruito edificio della Vijećnica, il municipio austro-ungarico simbolo della città che ospitava la biblioteca nazionale, incendiato e distrutto dagli assedianti serbi nell’agosto del 1992, all’inizio della guerra in Bosnia ed Erzegovina. L’edificio, ricostruito il più fedelmente possibile e con materiali originali, ospiterà l’amministrazione cittadina, la scarsa parte del patrimonio librario scampato al disastro il museo di Sarajevo.
Per chi ha vissuto, da protagonista o da testimone, gli anni del conflitto bosniaco, la distruzione della biblioteca, bombardata nell'agosto del 1992 per quindici ore di seguito e infine incendiata da proiettili al fosforo, rappresentò l'annuncio che quel conflitto sarebbe stato incurante non solo delle vite, ma anche delle memorie di qual popolo. In due giorni bruciarono i quattro quinti dei due milioni di libri che la biblioteca conservava.
Quell'edificio, l'ultimo in cui era entrato dall’arciduca austriaco Francesco Ferdinando, prima di andare incontro al mortale attentato che proprio a Sarajevo avrebbe aperto e concluso il secolo delle guerre più feroci in Europa, era considerata uno dei patrimoni di arte e di cultura dell' intera umanità e diventò un monumento all'orrore.
Come detto, andarono perduti la maggior parte dei libri, alcuni preziosissimi, che costituivano una raccolta unica al mondo per ricchezza di tematiche legate al multiculturalismo della città. A salvare qualcosa dall' accanimento dei mortai fu il coraggio — e forse la sapienza inconsapevole — di decine di giovani gettatisi tra le fiamme per prestare soccorso ai libri come se fossero persone, quasi si riconoscessero loro debitori del proprio essere, come lo si è con i propri genitori, con i propri maestri.
Quei libri erano caparre di civiltà e come tali un pericolo per chi alla civiltà si oppone. Quei libri dicevano che non è solo l' odio ad avere radici antiche in questa terra, che la storia dei Balcani non è solo — come troppe volte raccontato con una qualche superficialità, con un cinismo ingiustificato — un complesso di risentimenti antichi, di rancori reciproci, di diffidenza e di paura tra popoli a turno vittime gli uni degli altri. Quei libri conservavano, raccontavano anche la storia della lunga fatica per la pace, la storia di popolazioni che non volevano più odiarsi. Per questo li presero a bersaglio i «signori della guerra» quando scatenarono di nuovo la loro tragica follia.
Di quella follia, la Vijećnica non è più, per fortuna, un simbolo evidente. Perché ci furono e ci sono nella capitale bosniaca rovine che sono simboli. Quasi distrutto fu il Museo dei Giochi Olimpici del 1984, quando il mondo venne in questa città per un confronto incruento, quando il mondo era amico di Sarajevo. Segnati dal cannone furono i teatri, i caffè, gli alberghi del tempo in cui l' Europa veniva ad incontrare Sarajevo europea. Distrutte furono gran parte delle chiese e delle moschee, i luoghi dell' identità, del patrimonio di questo popolo nel quale si erano incontrati l' ebraismo, l'islam, l'ortodossia e la cattolicità. Furono distrutte le scuole, le aule universitarie, i luoghi del sapere, i luoghi deputati alla ricerca delle strade di pace.
E furono bruciati i libri, con una chiara volontà, come dimostrò l'uso delle bombe al fosforo, di cancellare la testimonianza che Sarajevo aveva offerto per decenni all' Europa, le tracce e l' esempio di una convivenza tra culture, etnie, religioni, di una pace autentica, tollerante, capace di vincere le difficoltà. Perché Sarajevo aveva rifiutato — nella sua eredità, nel suo vivere quotidiano, nei luoghi della sua cultura e del suo sviluppo — l'esasperazione dei nazionalismi, la strumentalizzazione dei suoi diversi patrimoni. Sarajevo aveva respinto l'incubo dell'odio e aveva scelto, coltivato, arricchito la visione dell'unità della famiglia umana che è comune a ebrei, cristiani e musulmani, persino a credenti e non credenti.
Qui tuonò il cannone contro quella scelta di pacifico sviluppo. Ma la ricostruzione della Biblioteca può segnare una ripresa del cammino dopo la caduta, un riavvio della civiltà dopo la barbarie. In quest' opera non solo la città, ma la Bosnia ed Erzegovina, l'intera ex Jugoslavia, l' Europa, la comunità internazionale tutta possono sigillare un nuovo patto, un rinnovato impegno di sviluppo. Per restituire alla pace le sventurate regioni devastate dai lunghi anni dell'odio, uno degli strumenti imprescindibili è infatti il restauro, dove possibile, o la ricostruzione, dove troppo è stato il disastro, dei patrimoni d'arte sui quali si è accanita la ferocia del cannone.
Certo, di fronte alla memoria di tanto dolore di bambini, di vecchi, di donne e di uomini innocenti, sembra poca cosa il ricordo delle distruzioni apportate ai complessi architettonici, ai capolavori dell' ingegno umano. Certo, più atroce e più spietato è il colpo di mortaio sulla piazza del mercato di quello sulla Biblioteca di Sarajevo. Certo, le cannonate sullo Stari Most, il cinquecentesco ponte di Mostar sulla Sava, colpirono pietre, venerabili, ma pur sempre pietre, e non i feriti degli ospedali. Certo, le fosse comuni impongono alla coscienza dell' Europa e del mondo un orrore maggiore, incommensurabilmente maggiore rispetto all'attonito sgomento che colse quando sulle bianche mura di Dubrovnik, in Croazia, si abbatterono le salve d' artiglieria della marina da guerra dell'alòlora ancora Jugoslavia.
Eppure, insistenti forse quanto le immagini delle vittime attonite e innocenti della guerra, restano nella memoria di chi dovette vivere quegli anni anche quelle dei patrimoni di storia e di cultura ridotti in macerie. Perché anche i libri e le pietre — talora soprattutto — edificano la pace e sono un pegno irrinunciabile di civiltà.