L’annuncio della normalizzazione dei rapporti tra Stati Uniti e Cuba, dopo cinquantatré anni segnati da un conflitto a tratti asperrimo, apre una speranza di pace e invita a ogni sforzo perché questa si realizzi pienamente. Ne sembrano consapevoli le dirigenze dei due Paesi, a partire dai presidenti Barack Obama e Raúl Castro, che hanno dato contemporaneamente oggi lo storico annuncio, facendo entrambi riferimento al determinante contributo di Papa Francesco e della Santa Sede.
Subito dopo, un comunicato della Segreteria di Stato vaticana ha sottolinea che «la storica decisione» dei Governi statunitense e cubano è stata accolta dal Papa con «vivo compiacimento», perché essa mira a «superare, nell’interesse dei rispettivi cittadini, le difficoltà che hanno segnato la storia recente» dei due Paesi. Negli ultimi mesi, Papa Francesco ha scritto a Obama e a Castro «per invitarli a risolvere questioni umanitarie d’interesse comune, tra le quali la situazione di alcuni detenuti, al fine di avviare una nuova fase nei rapporti tra le due parti». In ottobre, in Vaticano erano state accolte delegazioni dei due Paesi per «favorire un dialogo costruttivo su temi delicati, dal quale sono scaturite soluzioni soddisfacenti per entrambe le parti». Il comunicato assicura che la Santa Sede «continuerà ad assicurare il proprio appoggio alle iniziative che le due Nazioni intraprenderanno per incrementare le relazioni bilaterali e favorire il benessere dei rispettivi cittadini».
Ad accelerare i tempi in questo senso sembra determinato soprattutto Obama. Per fine gennaio è già fissata una missione all’Avana del sottosegretario di Stato per l’emisfero occidentale, Roberta Jacobson, che avvierà i colloqui per il ripristino delle relazioni diplomatiche. E già circolano voci insistenti su una possibile visita di Raúl Castro a Washington già in tempi brevi.
I riconoscimenti internazionali per la scelta di Obama sono unanimi, a partire proprio da quelli dei Governi dell’America latina, una regione dove il posizionamento riguardo alle politiche di Washington ha sempre avuto riflessi politici, economici ed ideologici determinanti. Se ne è avuta una prova dalle prime dichiarazioni rilasciate dai presidenti di Argentina, Brasile, Paraguay, Uruguay, Venezuela e Bolivia, riuniti per il vertice del Mercosur.
A fronte di questi riconoscimenti, uniti a quelli dei rappresentanti religiosi tanto cubani quanto statunitensi, Obama deve comunque fronteggiare possibili opposizioni interne, sulle quali in queste ore insiste molto la stampa. Il pericolo che i tempi del disgelo possano essere più lunghi di quelli auspicati dal presidente americano è reale, anche se Obama, che vorrebbe porre fine all’embargo entro la fine del 2016, ha il potere di agire su molti aspetti della vicenda anche senza l’autorizzazione del Congresso.
Questo, tuttavia, ha a sua volta gli strumenti per bloccare, o almeno per ostacolare a lungo, la svolta. Per esempio negando al presidente i fondi necessari per riaprire l’ambasciata all’Avana, facendo ostruzionismo sulla nomina dell’ambasciatore, votando contro la legge che dovrebbe facilitare i viaggi da e per Cuba, ignorando le altre richieste della Casa Bianca mirate alla completa rimozione dell’embargo. Segnali in questo senso non sono mancati da esponenti del partito repubblicano, maggioritario al Congresso.
Tuttavia, non pochi osservatori sottolineano come a prevalere alla fine non saranno le contrapposizioni ideologiche, ma un desiderio genuino di pace. La realtà è che è passato molto tempo dalla Baia dei Porci e dalla crisi dei missili. La maggior parte degli statunitensi ha ormai messo da parte ogni ideologia ereditata dai tempi della guerra fredda, e da anni è d’accordo con l’avvio di un processo di normalizzazione dei rapporti con Cuba.
Anche in Florida, dove vive la maggioranza degli esuli cubani, le nuove generazioni delle famiglie di questi ultimi non vedono più nel dialogo con le autorità dell’Avana un tabù e, anzi, lo auspicano. A questo si aggiunge che nonostante l’embargo, lo scorso anno seicentomila cittadini statunitensi si sono recati per turismo o affari a Cuba e che per la maggior parte erano proprio originari dell’isola.