Vico diceva che la storia ha corsi e ricorsi. Un assioma culturale afferma invece “non bis in idem” (non due volte allo stesso modo). Oscilla tra questi due estremi, in queste ore, la riflessione inquieta di molti (io tra questi) sulle similitudini tra la genesi della mattanza jugoslava degli anni Novanta del secolo scorso e l'attuale situazione in Ucraina. Somiglianze si rintracciano in una situazione di crisi generalizzata, all'epoca socio-politica, dopo la fine del bipolarismo e la dissoluzione dell'Unione Sovietica, oggi sostanzialmente economica, nel segno di una globalizzazione soprattutto rapace e discriminatoria. Al tempo stesso, protagoniste dello scontro sono popolazioni diverse, riunite all'interno di confini che sono sempre stati sostanzialmente amministrativi, e a lungo pacificamente conviventi sulla base di una comune condizione sociale e politica. Oggi in Ucraina, come allora in Jugoslavia, al venir meno di un collante ideologico (buono o cattivo che fosse in questo caso non fa differenza) e persino dell'idea (questa buona in sé) di uno sviluppo comune e condiviso, si è sostituita la concezione ideologica dell'etnia, la degenerazione nazionalistica dell'identità.
Dissimile, invece, è il contesto geopolitico. Nella tragedia jugoslava non erano implicati, almeno direttamente e in modo massiccio, potenti vicini. Oggi in Ucraina, invece, ha un ruolo decisivo la Russia di Putin. Ed è proprio contro Putin che si levano le prese di posizione da occidente e quelle dell'ex opposizione ucraina che ha rovesciato il filorusso presidente Victor Junaković e si è insediata al potere a Kiev, contando sull'improbabile protezione di quei Paesi che ripetono come un mantra i concetti di integrità territoriale e di autodeterminazione dei popoli. Concetti che in Ucraina oggi, come nella Jugoslavia di allora, sembrano abbastanza antitetici, proprio in conseguenza di quei rigurgiti nazionalisti di cui sopra. Così come lo stesso Putin afferma che ogni suo intervento è determinato dal dovere di proteggere le popolazioni di etnia, lingua e cultura russe presenti in Ucraina, senza fare riferimento agli evidenti interessi di una potenza imperiale
Non è certo la prima volta che con simili affermazioni si vestono politiche e comportamenti determinati soprattutto da questioni molto più terra terra. Anche perché quanti sui concetti di autodeterminazione dei popoli e di diritti dell'uomo credono davvero, difficilmente arrivano al potere e ancora più difficilmente trovano ascolto da quanti il potere – politico, militare e soprattutto economico – tengono stretto e gestiscono.
Nel 1991, prima che parlassero le armi, le voci più attente alle ragioni della pace invocarono invano il mantenimento dell'unità jugoslava in una forma confederale che garantisse i diritti dei serbi come dei croati, dei montenegrini come dei bosniaci, deglo sloveni come dei macedoni, degli ungheresi della Voivodina come degli albanesi del Kosovo. Sappiamo tutti come è andata a finire. Anzi, come non è ancora finita.
Proprio in Kosovo, per esempio, sembrano profilarsi continuamente nuovi ostacoli nel tentativo di normalizzare la regione, dopo un decennio di mediazioni dell'Unione europea tra il Governo di Belgrado e le autorità di Pristina, espressione della maggioranza albanese del Kosovo che ne ha dichiarato unilateralmente l’indipendenza dalla Serbia. È di queste ore la notizia che autorità di Pristina hanno deciso di costituire un esercito. Nell'annunciarlo, il primo ministro dei kosovari albanesi, Hashim Thaçi ha detto che uno dei compiti delle nuove Forze armate — che saranno forti di cinquemila soldati e tremila riservisti — sarà la tutela della sovranità territoriale del Kosovo. «È un’altra trasformazione che va a beneficio del Paese, della sicurezza regionale e nell’interesse dei processi di integrazione euroatlantica del Kosovo», ha sostenuto Thaçi. Ovviamente la mossa è destinata a suscitare le proteste tanto della Serbia, che non riconosce l’indipendenza di Pristina, quanto della minoranza serba kosovara, che ha sempre rifiutato tutte le iniziative in questo senso della maggioranza albanese. Fonti concordi a Belgrado hanno riferito che il primo ministro serbo, Ivica Dačić, solleverà la questione nella prossima sessione di colloqui con Thaci, in programma a metà marzo a Bruxelles con la mediazione dell’alto rappresentante della politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea, Catherine Ashton.
I kosovari albanesi si sono dati una costituzione, che secondo loro deve essere rispettata anche dai serbi, e una bandiera. Le bandiere nazionali sono diventate un po' come quelle delle squadre di calcio. Se ce ne è una sola la sventolano tutti concordi, se ce ne sono due incominciano i guai. Di solito sono guai relativi (si pensi alla pagliacciata della bandiera della presunta Padania da noi in Italia) ma se le si cuciono sulle divise militari e le si issano sui carri armati la questione cambia. E se il Kosovo è tutto sommato una realtà relativamente piccola – e si possono protrarre negoziati per anni e anni - l'Ucraina è un Paese di 45 milioni di abitanti al confine con la Russia. E di bandiere in Ucraina ne girano ormai due. E in questo caso dar ragione a Vico sarebbe imperdonabile per la comunità internazionale.