La questione dei gruppi armati e della minaccia del terrorismo si sta imponendo in queste ore come prioritaria al 23° vertice dei capi di Stato e di Governo dei Paesi dell’Unione africana, che si concluderà domani a Malabo, la capitale della Guinea equatoriale. Il tema ufficiale del vertice è «Agricoltura e sicurezza alimentare in Africa», ma sin dall’inizio delle riunioni preparatorie le discussioni sono state dominate dalle crisi legate all’attività, spesso di tipo terroristico, dei gruppi armati presenti in diversi Paesi, in particolare in Nigeria, Mali, Repubblica Democratica del Congo, Repubblica Centroafricana, Somalia e Sudan. Lo stesso presidente di turno dell’Unione africana, il capo di Stato mauritano Mohamed Ould Abdel Aziz, ne ha preso atto nel suo discorso introduttivo del vertice, ieri sera, evidenziando come prima cosa la gravità delle «minacce costituite dal terrorismo, dalla grande criminalità e dai traffici illeciti», prima ancora che affrontare il tema della sicurezza alimentare.
La questione del peacekeeping in Africa è complessa. Negli ultimi anni sono aumentale le difficoltà nel fornire le missioni di pace non tanto di personale, quanto di strumenti adeguati, per esempio elicotteri e aerei da ricognizione, il cui impiego comporta costi difficilmente sostenibili dai Paesi del continente. L’Unione africana gestisce in proprio, per esempio in Somalia, o in collaborazione con l’Onu, come nella regione occidentale sudanese del Darfur, diverse missioni continentali e, in ogni caso fornisce caschi blu a quelle sotto il diretto comando del Palazzo di Vetro.
È il caso, per esempio, della Minusca, la missione dispiegata in Mali della quale proprio due giorni fa il Consiglio di sicurezza dell’Onu ha prolungato di un anno e ampliato il mandato. Nel testo di una risoluzione approvata mercoledì pomeriggio a New York si chiede ai militari di estendere le loro attività nel nord del Paese «attraverso operazioni di pattuglia a largo raggio, al di fuori dei centri urbani, nelle aree dove i civili sono a rischio». Nel documento si afferma che la Minusca, oltre a contare su un massimo di 11.200 soldati e 1440 poliziotti, impiegherà anche droni, gli aerei senza pilota, con compiti di sorveglianza a largo raggio, sull’esempio di quanto già accade nella Repubblica Democratica del Congo. E questo comporta appunto forniture e finanziamenti al di là delle possibilità dei Paesi africani.
A questo si aggiungono il mancato coordinamento e i rapporti spesso difficili con i contingenti inviati autonomamente da alcuni Paesi. È stato in Somalia il caso del Kenya, che ha inviato truppe per un'operazione autonoma poi incorporate nell’Amisom, la missione dell’Unione africana. Tra l'altro, proprio le truppe kenyote (in particolare marina e aviazione) sono state determinanti per quella che un anno e mezzo fa la comunità internazionale definì con almeno una qualche precipitazione la sconfitta delle milizie radicali islamiche di al Shabaab. Queste ultime, originariamente espressione delle Corti islamiche che avevano governato a Mogadiscio prima di essere costrette a lasciare il potere dall’intervento armato dell’Etiopia, furono all'epoca scacciate anche da Chisimaio, seconda città e secondo porto della Somalia, che avevano controllato per anni, grazie appunto al determinante apporto delle truppe di Nairobi. La presunta sconfitta, peraltro, è stata tutt'altro che tale, dato che al Shabaab ha dimostrato da allora di aver mantenuto intatta la propria capacità di colpire, sia con azioni di guerriglia (di un loro attacco a reparti dell'Amison a Buulobarde, a nord di Mogadiscio, giunge notizia proprio in queste ore), sia con azioni di terrorismo, in patria e all'estero, soprattutto proprio in Kenya.
Le truppe africane di peacekeeping, inoltre, non hanno mai raggiunto un efficace coordinamento con i contingenti i francesi presenti nello stesso Mali e nella Repubblica Centroafricana, dove opera la Misca, la missione africana destinata a sua volta a passare dal prossimo settembre sotto la responsabilità dell’Onu.
La questione del peacekeeping, in situazioni di crisi complesse, richiede una riflessione che non può essere solo africana, ma deve investire l'Onu nel suo complesso. Soprattutto si tratta di stabilire le priorità di difesa (e le relative politiche industriali), ma anche i protocolli di intervento, il cosiddetto mandato del Consiglio di sicurezza, e il relativo addestramento.
In questo senso un contributo africano è stato annunciato proprio oggi ad Addis Abeba, che dell’Unione africana è sede, ma in questo caso per iniziativa del Governo locale. Si tratta dell’avvio della costruzione del «Centro etiopico di addestramento per il peacekeeping internazionale». Il centro preparerà mille operatori l’anno, militari o civili, provenienti da Paesi africani, ma anche da altri continenti.