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Un testo ritrovato dopo trent'anni

La casa dei miei morti

3 ottobre 2017

Tre settimane fa, il 12 settembre, nel suo 97° anno di età, è morta mia madre. In questi giorni ho dovuto occuparmi della sua lapide, nella nostra cappella di famiglia. Sempre in questi giorni, ho dovuto aprire i suoi cassetti, mettere ordine tra le sue cose. Vi ho trovato una cosa scritta trent'anni fa da me, che lei aveva conservato, credo gelosamente. Si tratta della prima stesura di una poesia in versi liberi. All'epoca mi ripromettevo di lavorarci ancora un po', ma poi altre cure me la fecero abbandonare.

Parla appunto della cappella della Famiglia Natalia nel cimitero di Tagliacozzo. Mio padre Mario morì improvvisamente nel gennaio del 1963 e fu tumulato in un fornetto nel cimitero della sua città d'origine, Anagni. Ma, sembra per le insistenze di mio fratello, come me bambino anche lui all'epoca, che lo avrebbe voluto a Tagliacozzo, il paese di mia madre e suo (io, per grazia di Dio, sono nato a Roma) mia madre promise che avrebbe edificato una tomba lì. E lo fece. Ci vollero quasi sei anni e molti soldi – all'epoca erano in molti a truffare la vedova e l'orfano – perchè venisse ultimata e potessimo traslarvi la salma di mio padre, nel novembre del 1968. All'epoca ero ancora un bambino che entrava nell'adolescenza, con molto rancore nei confronti della vita e con una smisurata idea di me stesso nella quale ho passato decenni a crogiolarmi e dalla quale probabilmente non mi staccherò mai del tutto. Tra l'altro, per molto tempo ho detto a mia madre che aveva buttato i soldi, che i morti sono morti, che avrebbe fatto meglio a comprarci una casa a Roma.

Vent'anni dopo ero una persona diversa. E già allora sapevo che edificare quella cappella è stata il dono maggiore fatto da mia madre alla mia storia.

Quei versi, scritti a macchina (all'epoca non usavo il computer) e corretti a penna, avevo pensato di riprenderli e di lavorarci ora. Poi ho deciso di lasciarli come sono, come mia madre li ha conservati per trent'anni. Li pubblico ora, così, su questo sito che da un po' di tempo mi vede scrivere più di cose personali che di vicende globali. Li pubblico per chi vorrà leggerli, ma soprattutto li pubblico per chi nel conservarli per trent'anni, senza mai farmene parola, mi ha offerto forse il perdono per tutte le volte in cui non l'ho compresa o l'ho ferita. Li pubblico perchè nella casa dei miei morti dove era il suo cuore ora riposa anche mia madre.

 

Vent'anni appena.

E se le cose avessero uguale agli uomini

ritmo di vecchiezza

ancora giovane e nuova saresti

casa dei miei morti.

Vent'anni appena da che mi ha preceduto

mio padre

tra i tuoi marmi.

E tra i tuoi fiori.

Gladioli dal lungo gambo

nei lunghi vasi

d'ottone già ossidato

e i settembrini

e i crisantemi gialli,

compagni allegri delle tombe di novembre,

e margherite

e quando è inverno le stelle di Natale

e gigli a primavera.

E le rose sull'altare

(le rose che mio padre amava

crescono adesso davanti alla dimora

che lo accoglie...

che mi attende).

Gli stessi fiori di ogni anno

quasi a scandire il tempo sempre uguale.

Mi sei cara

casa dei miei morti che sarai la mia casa.

I tuoi marmi e le lettere dorate sulle lapidi

e il Cristo crocifisso sull'altare

sono memoria e mia eredità.

Più della mia casa

più di ogni stanza che ha vestito

il volgere dei giorni

la storia dei miei anni

mi sei cara

(eppure turbavi i giorni brevi di novembre

il giorno triste di gennaio

quando mia madre mi portava

ad ascoltare la Messa di suffragio).

E a gennaio la data anniversaria

del mio essere orfano

riporta alla memoria

gioie mai avute

amare nostalgie della mia infanzia.

Eri luogo oscuro a gennaio

e la morte rivelava

quanto mancava alla mia vita.

Ancora adesso il freddo è uguale

fra i tuoi marmi

memoria persistente di quei giorni.

Eppure mi sei cara

casa dei miei morti

che ho visto nascere

(è giusta la parola

perchè sei frutto d'amore)

e oggi sei l'unica radice alla mia storia

l'unica quiete nel mio affanno.

Oggi soltanto

(e dolgono le le spalle

del peso di tanti anni di dolore

dell'orrore che attraverso e che racconto)

sento che il vostro sonno è buono

miei morti

cullati nella vita del Dio vivo.

La croce di ferro arruginito

sul frontone

è pegno della vostra redenzione

carezza lieve

ombra benigna e consolante

sul camposanto

coi vostri nomi incisi...

col mio nome atteso.

E bello è il sole settembrino

che incendia le vetrate

belli i fiori nuovi

che la pietà vi riconduce

lievi ornamenti

consolazioni dolci

per noi di questa vita ancora vivi.

Colmo di pace è il cuore

e la solitudine stessa

sembra una compiacenza d'intelletto

quasi una sciocca fantasia.

Dietro le foto sulle tombe

ci sono i gesti del ricordo

c'è la presenza

misteriosa e certa

del vostro amore

nei giorni gli attimi i gesti

che fanno oggi la mia mia vita

miei morti cari

che educaste i passi miei bambini

e ora consolate il tempo mio di adulto

del vostro esempio.

L'eredità di affetti

(oh l'intuizione del poeta

che cercava luce

e che cantò la luce)

è pasta lievitata ormai

cibo continuo al mio ricordo

e insieme forza per nuovi giorni.

Non più pugni contratti

o il soffocare lacrime

per i miei giorni schiantati dalla grandine.

Nuove stagioni senz'ira

mi prometti

casa dei miei morti

che attendi la mia quiete.

Casa di consolazione e di memoria

il vento lieve tra i tuoi roseti

carezza ora di baci le mie labbra...

e le bruciava allora di baci disperati.

E porta la promessa

che nuove carezze sapranno le mie mani

nuove carezze avrò nel mio futuro.

Sembra non sanguinare più

il mio cuore di carne

casa dei miei morti che sei la mia casa.

A lungo atteso di sapere placati i miei rimorsi

fantasie vane i miei rimpianti

casa dei miei morti che mi attendi

abitudine dolce e sempre cara

di deporre un fiore...

di dire una preghiera.