Tre settimane fa, il 12 settembre, nel suo 97° anno di età, è morta mia madre. In questi giorni ho dovuto occuparmi della sua lapide, nella nostra cappella di famiglia. Sempre in questi giorni, ho dovuto aprire i suoi cassetti, mettere ordine tra le sue cose. Vi ho trovato una cosa scritta trent'anni fa da me, che lei aveva conservato, credo gelosamente. Si tratta della prima stesura di una poesia in versi liberi. All'epoca mi ripromettevo di lavorarci ancora un po', ma poi altre cure me la fecero abbandonare.
Parla appunto della cappella della Famiglia Natalia nel cimitero di Tagliacozzo. Mio padre Mario morì improvvisamente nel gennaio del 1963 e fu tumulato in un fornetto nel cimitero della sua città d'origine, Anagni. Ma, sembra per le insistenze di mio fratello, come me bambino anche lui all'epoca, che lo avrebbe voluto a Tagliacozzo, il paese di mia madre e suo (io, per grazia di Dio, sono nato a Roma) mia madre promise che avrebbe edificato una tomba lì. E lo fece. Ci vollero quasi sei anni e molti soldi – all'epoca erano in molti a truffare la vedova e l'orfano – perchè venisse ultimata e potessimo traslarvi la salma di mio padre, nel novembre del 1968. All'epoca ero ancora un bambino che entrava nell'adolescenza, con molto rancore nei confronti della vita e con una smisurata idea di me stesso nella quale ho passato decenni a crogiolarmi e dalla quale probabilmente non mi staccherò mai del tutto. Tra l'altro, per molto tempo ho detto a mia madre che aveva buttato i soldi, che i morti sono morti, che avrebbe fatto meglio a comprarci una casa a Roma.
Vent'anni dopo ero una persona diversa. E già allora sapevo che edificare quella cappella è stata il dono maggiore fatto da mia madre alla mia storia.
Quei versi, scritti a macchina (all'epoca non usavo il computer) e corretti a penna, avevo pensato di riprenderli e di lavorarci ora. Poi ho deciso di lasciarli come sono, come mia madre li ha conservati per trent'anni. Li pubblico ora, così, su questo sito che da un po' di tempo mi vede scrivere più di cose personali che di vicende globali. Li pubblico per chi vorrà leggerli, ma soprattutto li pubblico per chi nel conservarli per trent'anni, senza mai farmene parola, mi ha offerto forse il perdono per tutte le volte in cui non l'ho compresa o l'ho ferita. Li pubblico perchè nella casa dei miei morti dove era il suo cuore ora riposa anche mia madre.
Vent'anni appena.
E se le cose avessero uguale agli uomini
ritmo di vecchiezza
ancora giovane e nuova saresti
casa dei miei morti.
Vent'anni appena da che mi ha preceduto
mio padre
tra i tuoi marmi.
E tra i tuoi fiori.
Gladioli dal lungo gambo
nei lunghi vasi
d'ottone già ossidato
e i settembrini
e i crisantemi gialli,
compagni allegri delle tombe di novembre,
e margherite
e quando è inverno le stelle di Natale
e gigli a primavera.
E le rose sull'altare
(le rose che mio padre amava
crescono adesso davanti alla dimora
che lo accoglie...
che mi attende).
Gli stessi fiori di ogni anno
quasi a scandire il tempo sempre uguale.
Mi sei cara
casa dei miei morti che sarai la mia casa.
I tuoi marmi e le lettere dorate sulle lapidi
e il Cristo crocifisso sull'altare
sono memoria e mia eredità.
Più della mia casa
più di ogni stanza che ha vestito
il volgere dei giorni
la storia dei miei anni
mi sei cara
(eppure turbavi i giorni brevi di novembre
il giorno triste di gennaio
quando mia madre mi portava
ad ascoltare la Messa di suffragio).
E a gennaio la data anniversaria
del mio essere orfano
riporta alla memoria
gioie mai avute
amare nostalgie della mia infanzia.
Eri luogo oscuro a gennaio
e la morte rivelava
quanto mancava alla mia vita.
Ancora adesso il freddo è uguale
fra i tuoi marmi
memoria persistente di quei giorni.
Eppure mi sei cara
casa dei miei morti
che ho visto nascere
(è giusta la parola
perchè sei frutto d'amore)
e oggi sei l'unica radice alla mia storia
l'unica quiete nel mio affanno.
Oggi soltanto
(e dolgono le le spalle
del peso di tanti anni di dolore
dell'orrore che attraverso e che racconto)
sento che il vostro sonno è buono
miei morti
cullati nella vita del Dio vivo.
La croce di ferro arruginito
sul frontone
è pegno della vostra redenzione
carezza lieve
ombra benigna e consolante
sul camposanto
coi vostri nomi incisi...
col mio nome atteso.
E bello è il sole settembrino
che incendia le vetrate
belli i fiori nuovi
che la pietà vi riconduce
lievi ornamenti
consolazioni dolci
per noi di questa vita ancora vivi.
Colmo di pace è il cuore
e la solitudine stessa
sembra una compiacenza d'intelletto
quasi una sciocca fantasia.
Dietro le foto sulle tombe
ci sono i gesti del ricordo
c'è la presenza
misteriosa e certa
del vostro amore
nei giorni gli attimi i gesti
che fanno oggi la mia mia vita
miei morti cari
che educaste i passi miei bambini
e ora consolate il tempo mio di adulto
del vostro esempio.
L'eredità di affetti
(oh l'intuizione del poeta
che cercava luce
e che cantò la luce)
è pasta lievitata ormai
cibo continuo al mio ricordo
e insieme forza per nuovi giorni.
Non più pugni contratti
o il soffocare lacrime
per i miei giorni schiantati dalla grandine.
Nuove stagioni senz'ira
mi prometti
casa dei miei morti
che attendi la mia quiete.
Casa di consolazione e di memoria
il vento lieve tra i tuoi roseti
carezza ora di baci le mie labbra...
e le bruciava allora di baci disperati.
E porta la promessa
che nuove carezze sapranno le mie mani
nuove carezze avrò nel mio futuro.
Sembra non sanguinare più
il mio cuore di carne
casa dei miei morti che sei la mia casa.
A lungo atteso di sapere placati i miei rimorsi
fantasie vane i miei rimpianti
casa dei miei morti che mi attendi
abitudine dolce e sempre cara
di deporre un fiore...
di dire una preghiera.