C'è una parola cara a Papa Francesco che da qualche tempo sembra molto declinata a livello politico, a ogni latitudine. La parola in questione è periferia. Intesa non tanto in senso topografico, quanto culturale e sociale. Di periferie emarginate si parla in Europa ogni volta che un qualche cane sciolto s'improvvisa terrorista e fa una strage. Di periferie devastate si parla in ogni racconto – peraltro sporadico – dell'Africa susahariana ormai narrata solo per luoghi comuni. Di periferie si parla persino ogni volta che qualche poliziotto ammazza un nero negli Stati Uniti, incuranti del fatto che, con qualche eccezione, sono i bianchi a spostarsi dai centri cittadini quando vi arrivano i neri o gli ispanici e che, per esempio, una casa ad Harlem, cioè in un quartiere di New York City, costa e vale da tempo molto meno di una equivalente delle varie città limitrofe.
Diciamo che in un'epoca di globalizzazione falsata da uno strapotere della finanza scollegato dall'economia reale e dalla giustizia sociale, è il concetto stesso di periferia a dover essere rivisto. E con esso il concetto di democrazia. Il “centro” che si contrappone alle periferie sociali non è oggi rappresentato dalle capitali, dai palazzi della politica, dalle ideologie vincenti. Il centro reale del potere è staccato dai comportamenti umani, lodevoli o perversi che siano. Sta in transazioni finanziarie gigantesche regolate in gran parte da algoritmi matematici. Paradossalmente, finisce quindi per risultare periferica la quasi totalità delle esperienze umane. Se mille persone controllano oltre la metà della ricchezza del mondo – statistica abbondantemente documentata da tutti i rapporti internazionali – a essere esclusa dalla costruzione del futuro è in pratica la totalità del genere umano. Ovviamente ci sono le eccezioni, i ricchi che lo diventano sempre di più, ma in tutto il mondo, dal Sud devastato ai nostri Paesi tuttora opulenti, l'ascensore sociale – il vero frutto della storia delle democrazie – è bloccato: i poveri restano tali o lo diventano di più, la classe media viene ricacciata indietro, i giovani si avviano a un futuro molto più difficile del presente dei loro padri.
Vale ovunque: in Nord Arfrica e in Medio Oriente in pochi anni la ventata di speranza delle cosiddette primavere arabe si è fermata su una palude di sangue. Senza affrontare un'analisi approfondita, basta fare l'esempio della Libia dove si consuma il palese fallimento dei cosiddetti “interventi di pace”, con o senza l'ombrello dell'Onu, degli eserciti delle grandi potenze. Quel fallimento che tante volte si è ripetuto con la copertura di una stampa mondiale appiattita da tempo su un'incapacità di indagine e di denuncia documentata, una stampa che brilla, tolte poche lodevoli eccezioni, per ignavia se non per complicità.
In uno schema che ormai non è più neppure ideologico, come ai tempi del bipolarismo tra Paesi liberali e Paesi comunisti, si continua a raccontare una presunta lotta del bene contro il male: qualsiasi banda armata che si opponga non solo ai poteri locali, ma che sembri utile agli interessi delle grandi potenze – compreso quello di vendere armi – viene raccontata come una nobile insurrezione contro dittatori cattivi. Salvo distinguere – si pensi alla Siria, ma non solo – tra insorti buoni e insorti cattivi. E se l'esito di elezioni imposte in fretta non è quello sperato dai Paesi “democratici” allora non vale, come insegna il caso dell'Egitto, ma ben prima quello dell'Algeria. E inquieta abbastanza che le uniche iniziative politiche dell'Europa siano la ricerca di accordi con i Paesi di transito dei migranti, per frenarne i flussi, senza curarsi più di tanto dei modi con i quali questo scopo viene perseguito, né della democraticità almeno dubbia dei Paesi in questione.
In America Latina dove le grandi conquiste del primo decennio del secolo – con oltre cento milioni di persone sottratte alla povertà estrema, soprattutto in Brasile e poi in Venezuela, esempi principali ma non unici – minacciano di essere vanificate non solo dal contesto economico e finanziario globale, ma da una corruzione che si rivela sempre più estesa, quando non da manifesti tentativi di contrarre le libertà popolari e i principi di rappresentanza.
Lo scorso 30 luglio in Venezuela si sono tenute le elezioni dell’Assemblea Costituente incaricata di riscrivere la Costituzione chavista del Paese e, di fatto, di consolidare il potere del presidente Nicolás Maduro. Il giorno delle elezioni, boicottate dall'opposizione, si sono verificati violenti scontri fra i manifestanti antigovernativi e polizia e da allora i morti nelle strade si contano non più a decine, ma ormai a centinaia. I principali leader dell'opposizione sono stati posti agli arresti domiciliari o hanno lasciato in fretta e in furia il Paese. Da un mese, al momento in cui questo articolo viene scritto, si susseguono le condanne di alcuni soggetti internazionali, compresa l'esplicita minaccia di intervento armato da parte del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Persino la Segreteria di Stato vaticana ha chiesto al Presidente venezuelano di fare un passo indietro: nella nota viene espressa “profonda preoccupazione per la radicalizzazione e l’aggravamento della crisi” e viene chiesto di “evitare o sospendere le iniziative in corso come la nuova Costituente”. La nota fa anche presente che Papa Francesco “segue da vicino tale situazione e i suoi risvolti umanitari, sociali, politici, e anche spirituali”.
Repressioni di tipo diverso, ma non per questo meno preoccupanti, sono in atto in molti Paesi dell'Africa sahariana, e dell'Asia. Tra gli esempi più evidenti ci sono le Filippine, il cui presidente Rodrigo Duterte, eletto l'anno scorso, ha varato leggi di spropositata seveverità contro chiunque usi stupefacenti e contro ogni forma di microcriminalità, con operazioni di polizia che hanno provocato oltre novemila morti. Duarte, che a fine agosto ha ribadito che la polizia ha ordine di uccidere chiunque si opponga all'arresto, ha altresì proclamato la legge marziale nel sud del Paese, promettendo di usare il pugno di ferro contro la crescita dell’estremismo islamistico, dichiarando esplicitamente di rifarsi alle scelte dell’ex dittatore Ferdinand Marcos. La crisi era scoppiata a fine maggio, a Marawi, nell’isola di Mindanao, dopo un blitz fallito dell’esercito per mettere le mani su Isnilon Hapilon, comandante del gruppo ribelle Abu Sayyaf. In risposta il gruppo in questione ha riacceso la guerriglia, in alleanza con l'altra formazione islamista Maute, una di quelle che un po' dovunque hanno giurato fedeltà all’Isis, ormai una sorta di marchio identitario, piuttosto che un'effettiva organizzazione, un po' come una decina di anni fa accadde con Al Qaeda. Tra i principali bersagli della violenza islamista, oltre alle forze governative, ci sono le comunità e le strutture cattoliche. Il che non impedisce, per fortuna, alla maggioranza dell’opinione pubblica cattolica, per quanto preoccupata dal pericolo di terrorismo di matrice fondamentalista islamica, di essere avversa ai provvedimenti governativi ormai non diversi dagli agli abusi dei diritti umani perpetrati dal regime di Marcos.
Leggi speciali e modifiche delle Costituzioni (o tentativi di farlo) sono sempre più in tutto il mondo un modo usuale per perpetrare il potere. E Venezuela e Filippine non ne sono certo gli unici casi. Con livelli ovviamente diversi di violenza, ce ne sono fin troppi esempi, dalla Turchia a diversi Stati africani, e persino in Europa (soprattutto contro gli stranieri).
Nessuno può ragionevolmente pansare che le libertà, politiche ed economiche, possano trovare un'effettiva tutela senza rappresentanza, senza le strutture dei sistemi parlamentari. Ma la democrazia è fatta di contrappesi, non solo di deleghe attraverso il voto. E a far vacillare una democrazia basta ormai la pressione di una crisi economica. Il vero nemico dei sistemi parlamentari è il deficit di partecipazione, la progressiva irrelevanza delle strutture intermedie tra cittadino e Stato. Finché c'è benessere abbastanza diffuso, c'è una forza d'inerzia del sistema, ma basta una crisi di risorse a far esplodere le tensioni. La democrazia parlamentare vive di mediazioni, ma i suoi benefici – le conquiste di civiltà dello Stato sociale – s'incrinano quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, la prospettiva del proprio futuro personale si fa inquietante.
E in questo vacillamento che da anni priva di senso soprattutto l'Occidente, trovano spazio classi direnti inadeguate, senza i contrappesi e la vigilanza di una vera stampa libera, con l'informazione appiattita sulla mercificazione di tutto, compresi gli stati d'animo. In un gioco perverso al quale internet ha dato un nutrimento impensabile fino a un paio di decenni fa, a quanti perdono diritti, speranze, tutele sociali viene lasciata solo l'indignazione, un'indignazione sterile che si appaga di potersi esprimere in una isterica bulimia di consumo di se stessi sui “social”. E allora si perde il senso stesso del principio democratico, al punto che l'idea del “leader forte” o il vociare feroce di forze politiche che indicano solo nemici – a partire dallo straniero, dal diverso – che puntano su su protezionismo, chiusura e discriminazione, lungi dall'essere riconosciute come minaccia, danno rassicurazione e identificazione al risentimento.
E forse oggi c'è da chiedersi un “Quo vadis?” diverso: “Dove vai, democrazia?"