La decisione del Governo del Cabon, che in questo fine settimana ha rimpatriato — di espulsione di immigrati in Africa non si parla mai — quattrocento persone arrivate nel Paese, in qualche caso da diversi anni, da Benin, Burkina Faso, Gambia, Ghana, Mali, Nigeria, Senegal e Togo, è solo l’ultimo esempio di una tendenza politica che qualche tempo contraddice il tradizionale spirito di accoglienza dei popoli africani.
Certo, al momento si può parlare appunto solo di tendenza. In un fenomeno epocale di flussi di profughi e migranti senza precedenti, gli spostamenti da sud a sud sono infinitamente superiori a quelli verso i Paesi europei e occidentali in genere. E le politiche di respingimento in Africa — come del resto nel Vicino oriente — non hanno ancora la perniciosa determinazione registrata nell’Unione europea o negli Stati Uniti o in Australia.
Su duecento milioni di persone in questa condizione, meno di un decimo nell’ultimo decennio hanno cercato scampo da guerre, persecuzione e fame nei Paesi ricchi dell’Occidente. Gli altri hanno varcato i confini con quelli limitrofi e lì si sono fermati. Solo nell’ultimo anno, tra Paesi africani si sono spostati oltre venti milioni di persone, a fronte dei poco più di duecentomila profughi e migranti giunti in quell’Unione europea dove non si riesce a trovare il minimo di solidarietà interna per collocarne poco più trentamila in Paesi che non siano la Grecia e l’Italia, quelli di arrivo. Né, per inciso, per alleviare di un paio di decine di migliaia di presenze i campi profughi della guerra siriana che nei Paesi limitrofi ne ospitano, in condizioni in prevalenza drammatiche, quasi quattro milioni.
Ma la tendenza c’è, in una sorta di globalizzazione del rifiuto che trova sempre più adesioni anche tra i Governi africani, a difesa di quei confini spesso tracciati soprattutto dagli interessi delle vecchie potenze coloniali, come basta qualsiasi carta geografica a dimostrare.
E le motivazioni — dichiarate o meno — ricalcano ormai quelle addotte da tanti sulle sponde settentrionali del Mediterraneo e dall’Atlantico: dal presunto lavoro che verrebbe tolto ai residenti, alla minaccia di infiltrazioni terroristiche, al razzismo, che certo non avvelena l’Africa dei contrasti etnici meno di quanto non faccia nel nord, dove aumentano i consensi alle forze politiche che lo cavalcano e anzi ne fanno apertamente una ragion d’essere.
Gli esempi sono ormai tanti, anche nei Paesi africani più ricchi, dal Sud Africa insanguinato nei mesi scorsi da violenze contro gli immigrati, al Kenya che appare sempre più deciso a smantellare i campi profughi dove in un quarto di secolo hanno trovato scampo dalla tragedia somala oltre mezzo milione di persone, per fare solo due esempi.
Un esempio meno evidente alcuni osservatori delle vicende africane trovano anche negli ultimi sviluppi legali in Costa d’Avorio, il Paese che a suo tempo, sotto la guida di Felix Houphouet-Boigny, più legò la propria indipendenza ai principi di solidarietà e di accoglienza. Il che, fra l’altro, contribuì a renderlo l’unico a non subire l’orrore della guerra civile nel trentennio seguito alla fine della colonizzazione. Salvo precipitarvi quando le “regole” del commercio globale colpirono pesantemente la sua economia, basata in massima parte sulle esportazioni di cacao e caffè. Houphouet-Boigny aprì le porte a quanti cercavano condizioni di vita migliori, nella convinzione, avallata dai fatti, che questo potesse aiutare lo sviluppo della Nazione. Quello spirito non sembra ritrovarsi oggi. La settimana scorsa, in Costa d’Avorio è stato annunciato il calendario delle presidenziali, fissate per ottobre. Alle liste elettorali sono iscritti circa trecentomila elettori in più di quelli delle presidenziali vinte nel 2010 da presidente uscente Alassane Dramane Ouattara, che si ricandida. Il numero è inferiore alle previsioni, il che conferma come a molti immigrati, anche da decenni, non siano stati stato riconosciuti i diritti politici.
E del resto, la guerra civile scoppiata alla fine del secolo scorso e protrattasi, con diverse fasi e intensità appunto fino al 2011, ha reso anche la Costa d’Avoria terra d’emigrazione. E non sono pochi gli ivoriani tra quegli infelici che nel tentativo di raggiungere l’Europa sono finiti in fondo al Mediterraneo.