Tra le quotidiane notizie di orrori che si susseguono ogni giorno, due hanno avuto in questa seconda settimana di settembre un rilievo sulla stampa paradossalmente inverso alla loro rilevanza. Sull'uccisione delle tre missionarie saveriane in Burundi, tutti hanno voluto dire la loro, talora in modo palesemente assurdo, per esempio facendo riferimento alla persecuzione dei cristiani nel mondo (in Burundi sono tutti cattolici). Sul lancio della campagna «Bambini, non soldati» voluta dall'Onu e volta in primo luogo all’assistenza ai minori coinvolti nei conflitti armati, il rilievo è stato invece infinitamente minore. Del resto, chi fa il mio mestiere, non può ignorare che tre suore uccise sono una notizia, mentre centinaia di migliaia di bambini uccisi sono una statistica.
Ma forse anche per un giornalista – cioè per uno che ha come unica ragion d'essere documentarsi per documentare - mettere insieme le due notizie non costituirà una forzatura, ma un tentativo di ragionamento per provare a capire se bisogna scommettere ancora, in quest'epoca di orrori, sull'amore che vince il marchio di Erode, sul servizio agli scampati alle stragi di innocenti.
La motivazione della campagna lanciata dall'Onu è che «il moltiplicarsi delle crisi che colpiscono i bambini dall’inizio del 2014 sta creando sfide tali da far passare in secondo piano i progressi fatti per proteggerli dagli effetti della guerra».
La campagna ha l’obiettivo di porre fine all’arruolamento di bambini e ragazzi entro la fine del 2016. «Una pace duratura non potrà mai essere raggiunta senza dare ai bambini i mezzi, le competenze e l’istruzione per ricostruire società e istituzioni lacerate da conflitti armati» ha detto Leila Zerrougui, rappresentante dell’Onu per la protezione dei bambini nei conflitti, durante una speciale riunione al Consiglio di sicurezza, affermando che occorre fare di più per includere negli accordi di pace disposizioni speciali per i bambini colpiti.
Sono ancora più di 250.000 i bambini e gli adolescenti arruolati per combattere le guerre o per servire nelle diverse milizie belligeranti nel mondo, praticamente in stato di schiavitù, anche sessuale. Nella cifra sono compresi anche i minori di diciotto anni arruolati in eserciti regolari, ma il fenomeno riguarda soprattutto le bande armate protagoniste dei conflitti oggi in atto nel mondo. La maggior parte dei rapporti internazionali, pur sottolineando che stime precise sono impossibili, sostengono che i bambini soldato sono in aumento. Secondo l'Onu, ce ne sono ancora in 35 Paesi. La maggioranza ha dai 15 ai 18 anni, ma alcuni ne hanno anche meno di dieci e si c’è una tendenza evidente all’abbassamento dell’età media.
Nessun continente è estraneo al fenomeno, neppure l'Europa, come documentano diversi esempi registrati nei conflitti caucasici. Ma certo l'Occidente è risparmiato da un fenomeno legato alle guerre parcellizate, condotte da gruppi armati che ripropongono, nel terzo millennio, il fenomeno delle compagnie di ventura medievali europee, abituate a porsi al soldo di un offerente, ma anche a mantenersi sulle risorse dei territori.
Zerroughi si è detta in particolare «inorridita dal totale disprezzo per la vita umana dimostrato dai gruppi estremisti armati, come lo Stato islamico e Boko Haram». Secondo il monitoraggio delle Nazioni Unite, fino a settecento bambini sono stati uccisi o mutilati in Iraq dall’inizio dell’anno, anche in esecuzioni sommarie. Nello stesso periodo Boko Haram ha attaccato scuole in Nigeria causando la morte di almeno cento studenti e settanta insegnanti. Le oltre duecento ragazze rapite da Boko Haram nel mese di aprile sono ancora disperse, mentre il gruppo armato nigeriano continua ad attaccare e rapire altri bambini. La rappresentante dell'Onu ha detto che l’instabilità e le crescenti tensioni in Libia, Afghanistan, Repubblica Centroafricana, Mali e Sud Sudan continuano a minacciare i bambini, ma che oggi è il Vicino e Medio Oriente il teatro delle principali violazioni dei diritti dei più piccoli.
Il riferimento immediato, quindi, sembra essere alle violenze di matrice fondamentalista islamica. Ma proprio l'uccisione delle tre suore saveriane in Burundi, tutte ultrasettantenni, racconta un'altra storia. Il delitto che ha visto vittime suor Olga Raschietti, suor Lucia Pulici e suor Bernardetta Boggian ha avatuto come teatro il loro convento di Kamange, nella capitale burundese Bujumbura, dove si trova un centro per i giovani fondato dalle congregazioni saveriane maschili e femminili per promuovere la convivenza tra etnie diverse. E le etnie in questione sono i tutsi e gli hutu, che nell'area si combattono da sempre, con massacri reciproci culminati nel genocidio dei tutsi (e degli hutu moderati) in Rwanda nel 1994. Da allora, certamente, episodi rilevanti di violenza non ci sono più stati. Tuttavia, il cammino verso una vera riconciliazione resta accidentato e non mancano segnali di un fuoco che cova sotto la cenere.
Le tre suore uccise – da uno squilibrato, sembra, senza nessuna matrice ideologica o religiosa – operavano cioè in uno dei contesti e dei compiti più difficili, quello dell'aiuto alle nuove generazioni a crescere come persone capaci di interrompere definitivamente la spirale forsennata delle violenze e delle vendette. Per il presunto autore del delitto «chiediamo una pena giusta ma umana. Abbiamo sentito nelle ultime ore troppe parole di vendetta», ha dichiarato suor Silvia Marsili, vicaria generale delle saveriane a Parma, alla notizia dell’arresto compiuto dalla polizia di Bujumbura. «Vogliamo che il sacrificio delle nostre sorelle non sia vano e crei un’ulteriore occasione di dialogo e un cammino di riabilitazione per l’autore di questo terribile gesto», ha aggiunto suor Silvia.
Suor Olga, suor Lucia e suor Bernardetta prima che in Burundi avevano svolto il loro servizio nella Repubblica Democratica del Congo, l'epicentro dell'intricata interconnessione tra le diverse crisi pluridecennali che dilaniano la tormentata regione dei Grandi Laghi. Proprio in questa regione è perpetrata da decenni la barbarie di usare bambini e bambine per fare la guerra, direttamente o indirettamente, per esempio con il loro impiego come scudi umani o per trovare passaggi nei campi minati, o anche per servire da schiavi o da trastullo per i combattenti. Nell'est congolese gli arruolamenti di minori, spesso con pratiche atroci, restano una piaga quotidiana. A questo si aggiunge la connessione perversa fra traffico di armi — prodotte nei Paesi ricchi: in Africa non ce ne è neppure una fabbrica — e uso delle milizie per garantirsi il controllo a basso prezzo delle immani risorse minerarie dell'area.
Anche nel passato i ragazzi sono stati usati come soldati —e non mancano nelle letterature di tutti i Paesi retoriche esaltazioni di minorenni pronti a combattere e a sacrificarsi — ma è stato soprattutto nella nostra epoca che il fenomeno si è ingigantito, perché è cambiata la natura dei conflitti. Basti pensare che fino alla prima guerra mondiale i civili rappresentavano il 5 per cento delle vittime, mentre oggi sono il 90 per cento. Né ha scarso rilievo il fatto che l'uso di armi automatiche e leggere abbia reso più facile l'arruolamento dei minori. Un bambino di 10 anni può usare un AK-47 come un adulto.
I ragazzi, poi, non chiedono paghe, si fanno indottrinare e controllare più facilmente di un adulto — il che vale anche per i gruppi terroristici — affrontano il pericolo con maggior incoscienza, per esempio attraversando campi minati o intrufolandosi nei territori nemici come spie.
Inoltre la lunghezza dei conflitti rende sempre più urgente trovare nuove reclute per rimpiazzare le perdite e in Paesi dall'età media bassissima lo si fa arruolando i ragazzi. Paradossalmente, questo accresce i rischi per le popolazioni civili: in molti casi, anche quando non sono imbottiti di droghe come è prassi abituale nella gran parte dei gruppi armati, i bambini soldato hanno meno autocontrollo dei miliziani adulti e diventano combattenti "dal grilletto facile".
L'azione internazionale contro l'uso dei bambini soldato è tra le più difficili non solo sul piano della prevenzione, ma anche su quello del recupero e del reinserimento sociale di quelli che si riesce a sottrarre a tale condizione. Per i ragazzi che sopravvivono alla guerra e non hanno riportato ferite o mutilazioni, le conseguenze sul piano fisico sono comunque gravi: stati di denutrizione, malattie della pelle, patologie respiratorie e dell'apparato sessuale, incluso l'Aids. Inoltre ci sono le ripercussioni psicologiche dell’essere stati testimoni o aver commesso atrocità: senso di panico e incubi li perseguitare anche dopo anni. Gravi sono anche le conseguenze di carattere sociale: la difficoltà dell'inserirsi nuovamente in famiglia spesso è tale che i ragazzi non riescono ad affrontarla. Per le ragazze, tra l’altro, il reinserimento sociale e la stessa riaccoglienza in famiglia sono difficilissimi e questo si traduce in una prospettiva di emarginazione e di degrado.
È con tutto questo che bisogna confrontarsi, con la difficoltà di bonificare il terreno sociale dall'odio e da pregiudizio, per dar tempo alla pace di crescere. Le tre missionarie saveriane erano dei «caschi blu di Dio», per usare un'espressione di un collega e amico, il comboniano padre Giulio Albanese, molto più capace di me di raccontare l'Africa, anzi le Afriche. E questo fa riflettere su un altro aspetto. Se i caschi blu (quelli dell'Onu) vengono uccisi durante le loro importantissime missioni, le loro salme vengono rimpatriate, restituite alle loro famiglie. Così accade per il personale internazionale in genere, per i diplomatici. Così non accade, spesso, per i missionari e le missionarie ad gentes. O meglio, non accade che siano sepolti nella loro patria d'origine, ma in realtà anch'essi riposano tra la loro gente, vicino a quella parte d'umanità che è la loro famiglia di adozione.
Anche suor Olga, suor Lucia e suor Bernardetta riposeranno in Africa, nel cimitero di Panzi, nei pressi di Bukavu, il capoluogo del Sud Kivo, unas delle devastate regioni dell'est congolese, loro precedente terra di missione. Riposeranno, nel rispetto di una loro precisa volontà, accanto a tanti altri missionari e missionarie che come loro hanno impegnato — e spesso sacrificato — la vita in Africa.
Le tombe di Panzi non sono mai state raccontate, non hanno avuto un Foscolo a iscriverle nel novero dei Sepolcri che «a egregie cose il forte animo accendono». Ma dovrebbero trovarlo. Dovrebbe esserci qualche voce capace di dare adeguato rilievo culturale alle loro vicende. In quest'epoca di globalizzazione delle diseguaglianze, dei conflitti, dell'ingiustizia, della ferocia delle armi - dal coltello per sgozzare al cacciabombardiere - servirebbe qualcuno capace di far comprendere che «santo e lacrimato» non è tanto «il sangue per la patria versato», ma soprattutto quello versato per la causa dell'uomo.
Perché forse è proprio la compromissione, l'amore, il coinvolgimento nelle vite degli altri – quella scelta di vita che della quale i caschi blu di Dio sono l'esempio probabilmente più grande, ma non certo l'unico – l'unica risposta possibile a invertire la deriva di un mondo in cui si straparla di guerre di religione. Perché sono luoghi come Kamenge, non certo tante sedi ovattate della diplomazia internazionale, i veri campi dove si semina civiltà. E sono i luoghi come Panzi i sacrari di una scelta prioritaria dell'uomo, del debole. I luoghi dove un amore che rivendica e persegue pace e giustizia cancella il marchio di Erode.