Sulle elezioni di domani per la presidenza dell'Afghanistan pende la minaccia talebana. Nel ricordarlo sulle pagine de L'Osservatore Romano, Gabriele Nicolò, da anni fra i più qualificati osservatori di quell'area del mondo, sottolinea che si vota anche per il rinnovo di 34 consigli provinciali e che l’elemento significativo, su questo versante, è dato dall’alto numero di donne in corsa per un seggio: sono 308 tra i 2.713 candidati. Anche e soprattutto su queste donne incombe la minaccia di rappresaglie talebane, ma nessuna di loro si è tirata indietro. In questo senso, i tredici anni passati dall'attacco statunitense hanno portato a un qualche sviluppo di civiltà. Ma per il resto quello di domani è il voto delle incognite, se non delle delusioni di un Paese tutt'altro che restituito alla pace.
Dopo tredici anni di presidenza di Hamid Karzai, comunque, la scelta del successore ha valore strategico, se non altro perché potrebbe segnare una svolta nella politica estera di Kabul. Entro la fine del 2014 sarà completato il ritiro delle truppe straniere e ci sono forti dubbi sulle capacità militari dell'esercito afghano di rispondere a una possibile, se non probabile intensificazione delle violenze talebane. Per mesi si è parlato di un accordo sulla sicurezza tra Afghanistan e Stati Uniti, che avrebbe dovuto agevolare il passaggio delle responsabilità alle unità afghane. Ma l'accordo è saltato. Washington voleva siglarlo subito, ma Karzai ha preferito prendere tempo, con un'intransigenza che gli ha attirato strali non solo stranieri, ma della stessa Loja Jirga (la grande assemblea afghana degli anziani e dei capi tribali). Il risultato, di fatto, è un Afghanistan diviso al suo interno e isolato dalla comunità internazionale.
Dal nuovo presidente molti attendono un cambio di rotta, ma – come annota sempre Nicolò – resta incerto se l'era di Karzai sia davvero al tramonto o se la sua influenza resterà determinante, se non altro perché sono a lui particolarmente vicini alcuni degli otto candidati alla successione.