Le elezioni generali di questa domenica 28 luglio in Mali, fortemente volute da diversi soggetti interni e internazionali — a partire dall’Onu, dalla Comunità economica degli Stati dell’Africa Occidentale (Ecowas nell’acronimo in inglese) e dalla Francia — devono in teoria mettere fine alla transizione e normalizzare il Paese. Ma diversi osservatori nutrono forti dubbi sia sulla possibilità di raggiungere lo scopo, sia, più in generale, sul contenimento di una crisi per la quale l’intervento armato francese e i successivi dispiegamenti prima di una forza dell’Ecowas e poi di una missione dell’Onu sono stati tutt’altro che risolutivi. Le popolazioni maliane, come tutte quelle del Sahel, restano infatti in condizioni drammatiche, rese ancora più difficili da un quinquennio di crisi economica globale.
L’azione francese ha avuto un sostanziale appoggio dei Governi dell’area e della comunità internazionale. L’argomento è stato la necessità di lottare contro il terrorismo internazionale di matrice fondamentalista islamica. Alcuni, come il responsabile degli affari politici dell’Onu, Jeffrey Feltman, hanno però parlato di soluzione né semplice né veloce, ammonendo che le azioni militari devono essere coordinate con cambiamenti politici.
I dubbi sul voto del 28 luglio riguardano proprio questo aspetto. Malgrado il silenzio calato sulle operazioni militari nel nord — dove sono ancora presenti e combattono le forze francesi — la situazione è tale da far sorgere forti perplessità sulla regolarità del voto. La stessa commissione elettorale ha ammesso che non si è potuto consegnare il certificato elettorale a un’altissima percentuale di cittadini, compresi quelli rifugiati in diversi Paesi confinanti.
Ce ne è abbastanza per dubitare che possa ritenersi conclusa la transizione avviata dopo il colpo di Stato messo in atto il 22 marzo 2012 nella capitale maliana Bamako da reparti militari guidati dal capitano Amadou Haya Sanogo. I golpisti, che avevano rovesciato il presidente Amadou Toumani Touré, avevano poi dovuto accettare appunto di avviare una transizione, sotto pressione internazionale. Capo di Stato ad interim era stato nominato l’ex presidente del Parlamento, Diacoumba Traoré, e primo ministro Modibo Diarra. Quest’ultimo, però, era stato ben presto rovesciato anch’egli dai militari al comando di Sanogo, che aveva così dimostrato di mantenere intatto il suo controllo sul Governo.
Anche questo rende evidenti le ombre che si proiettano sulla possibilità di un vero dialogo nazionale per ricostruire la pace. Autorevoli fonti internazionali, dall’alto commissariato dell’Onu per i rifugiati alla Corte penale internazionale, hanno denunciato l’aumento di tensioni e violenze tra comunità etniche in diverse aree del Mali. Tuareg e arabi, in particolare, accusati da altri gruppi di sostenere la ribellione separatista, sono stati fatti oggetto di vendette da parte dei militari maliani, tutti appartenenti alle etnie nere del sud, che hanno affiancato i francesi nella riconquista delle regioni settentrionali.
In questo contesto, molti osservatori nutrono dubbi anche sulla reale legittimità delle autorità che usciranno dal voto del 28 luglio. Significativo è stato anche il ritiro dalla corsa alla presidenza di uno dei 28 candidati, quel Tiébilé Dramé che il mese scorso aveva firmato a nome del Governo di transizione di Bamako l’accordo di pace con i tuareg del Movimento nazionale di liberazione dell’Azawad e dell’Alto consiglio per l’unità dell’Azawad, i due gruppi in posizione dominante a Kidal, il capoluogo principale del nord, dopo il ritiro delle milizie jihadiste, che restano comunque asserragliate sui massicci montuosi settentrionali. «Voler mantenere la data del 28 luglio significa privare numerosi cittadini maliani del loro diritto di voto», ha detto infatti Dramé, annunciando il ritiro della sua candidatura.
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Le elezioni in Mali
Un voto
senza certezze
28 luglio 2013 |