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La condanna del precariato fatta dal Papa

Giovani e questione lavoro

28 febbraio 2016

 L'udienza data da Papa Francesco alla Confindustria – finita come quarta o quinta notizia sui telegiornali italiani e praticamente ignorata nel resto del mondo – conferma la difficoltà per la “grande informazione” di comprendere davvero il significato di un pontificato, soprattutto sotto l'aspetto del magistero sociale. Eppure, l'invito del Papa ha invertire la tendenza affermatasi in tutto il mondo da oltre un quarto di secolo, quella di subordinare il lavoro al capitale, per dirla con Marx, l'interesse privato ai diritti collettivi e, in ultima analisi, un atroce e alienante primato delle cose sulla persona umana, non sembra questione secondaria. Tra i mutamenti profondi che hanno segnano l’epoca della globalizzazione, quello del venir meno della sicurezza del lavoro, del posto fisso, come si diceva un tempo in Italia, appare tra i più rilevanti. Il dibattito politico in merito, in Italia e non solo, certo non aiuta le opinioni pubbliche a comprendere bene i termini della questione.

 

Purtroppo l’attenzione più che sui mutamenti sociali intervenuti negli ultimi anni continua a concentrarsi su quelle che ne sono state e ne saranno le ricadute politiche – intendo il termine “politico” non in senso lato, ma in quello di confronto tra partiti e schieramenti – di corto respiro. Pootrà pure essere normale per la politica interrogarsi sulle risposte immediate da dare ai problemi piuttosto che impegnarsi in una riflessione approfondita. Ma è un atteggiamento almeno di corto respiro non interrogarsi sulle prospettive che alcuni modelli di organizzazione economica impongono alla generazione che si affaccia oggi nell'età adulta e a quelle che lo faranno nell'immediato futuro. Bergoglio ha ricordato ancora una voltacome nella cosiddetta "questione lavoro" sia prioritaria la causa dell'uomo. Non prenderne coscienza potrebbe tradursi sempre più in spaccature insostenibili, tra garantiti e precari, tra classi sociali privilegiate e svantaggiate, tra giovani e anziani, tra integrati ed emarginati.

 

Aggiungerò che, almeno a mio giudizio, i mezzi d'informazione – con qualche lodevole eccezione alla quale, senzafalse modestie, ritengo di contribuire – non svolgono sotto questo aspetto un compito adeguato. L’attenzione è rivolta quasi sempre alla cronaca e quasi mai agli avvenimenti che la provocano e che la determinano. In questo senso non credo che la stampa assolva a sufficienza al suo compito di “cane da guardia della democrazia”. E che soprattutto abbiano smesso di interrogarsi sulla fatica della democrazia, che non è solo il diritto-dovere a governare secondo le aspettative della maggioranza dei cittadini, ma anche e soprattutto garantire le minoranze più deboli. Ridurre la comunicazione e l'attività politica a slogan, come è tipico di questi nostri anni, ha i dolorosi "effetti collaterali" di banalizzare le risposte ai grandi interrogativi sociali e di esasperare le spaccature e le divisioni.

 

E una stampa sdraiata consente al potere di agire senza controllo e soprattutto senza dover rispondere a domande, di solito con l'alibi che l'opinione pubblica chiede “fatti, non parole”. E quando la protesta s'intensifica, c'è sempre l'alibi di garantire l’ordine pubblico e la sicurezza. Mi sembra una prassi ingiusta e anche poco intelligente. Ingiusta perché non appartengono a una democrazia matura, quali che possano essere i loro successi elettorali, posizioni sintetizzabili nel binomio "evocare paura, indicare il nemico colpevole". Poco intelligente, perché devastanti e sempre più diffusi impoverimenti ed emarginazioni sarebbero il prezzo pagato a politiche "decisioniste" prive di quel necessario confronto diffuso e continuo tra tutte le rappresentanze sociali.

 

E vale anche per l'altra obiezione che si sente spesso, cioè è meglio un lavoro temporaneo o precario della disoccupazione. Sembrerebbe un’ovvietà e invece è una minaccia. Se la flessibilità del lavoro puù essere considerata un'esigenza delle economie globalizzate, cioè come una tendenza del futuro, trasformare tale flessibilità in precarietà è un inquietante ritorno al passato, ad epoche nel quale il lavoro dell'uomo non veniva annoverato tra i diritti, ma era determinato dall'esclusivo interesse dei poteri economici e politici. La globalizzazione non va subita, ma governata e colta come un’opportunità di sviluppo. Il nodo cruciale della "questione lavoro" in questi anni sta proprio in questa fatica di gestire la flessibilità e di contrastare la precarietà, in questa fatica che è propria di una democrazia autentica.