Ecclesia semper reformanda est (la Chiesa è sempre da riformare) è storicamente un'affermazione del protestantesimo, ma nel suo significato profondo e nel suo afflato profetico è parte irrinunciabile dell'esperienza cristiana, cattolicesimo compreso. Sembrerebbe una considerazione banale, ma un po' di riflessione, in questa domenica che apre il quarto anno di pontificato di Papa Francesco, aldilà delle celebrazioni e delle acclamazioni generiche, aiuta alcuni a interrogarsi, evangelicamente, sui segni dei dei tempi in questa fase della storia.
Il termine riforma è da sempre un po' ostico alle orecchie delle gerarchie cattoliche. Persino Papi di assoluta statura intellettuale - si pensi a Paolo VI – hanno usato nell'impiegarlo una cautela che qualcuno potrebbe leggere come perplessità. Bergoglio non si è fatto mai problemi a ricorrervi, a farne anzi una cifra del suo pontificato.
Se ci stia riuscendo è un'altra questione. Sotto gli aspetti organizzativi – la cosiddetta riforma della Curia vaticana – i segnali sembrano ad alcuni tutt'altro che incoraggianti. Tre anni fa, nell'ultima esortazione prima che i cardinali si riunissero in conclave, il maltese Prosper Gech parlò ai suoi confratelli chiamati a scegliere il Vescovo di Roma dopo lo shok della rinuncia di Benedetto XVI, di tradimento, peccato pervasivo (non solo per quanto riguarda gli abusi sessuali), e si spinse a delineare una diffusione di atteggiamenti scismatici. E il riferimento non era a fenomeni di retroguardia, a groppuscoli secondo i quali essere cattolici significa celebrare la Messa in latino o vestire i preti con la gonna
Era invece la presa d'atto di quello che i sociologi della religione definiscono da tempo un crescente silenzioso atteggiamento di rottura, appunto uno scisma, sia pure silenzioso, tra magistero della Chiesa e vita dei fedeli. E il punto, come sempre del resto, è quello è quello dei comportamenti individuali, della testimonianza. Dell'immagine, come si dice oggi, che la Chiesa proietta di sé nell'opinione pubblica, e del modo in cui le parole si traducono in fatti.
Tre anni dopo, la situazione non mostra sostanziali cambiamenti e i segnali in questo senso, che pure ci sono, appaiono a molti più legati alla testimonianza personale di Bergoglio che a un reale lievitare di un convincimento diffuso. La curia romana, per fortuna, non è la Chiesa. Ma pure questo strumento, necessario, dell'azione del Papa, costituisce uno spaccato significativo degli sviluppi ecchesiali e un punto d'osservazione che non può essere trascurato.
Ed è, come tutte le burocrazie, una struttura che tende all'autoconservazione, refrattaria ai cambiamenti. Ad alcuni osservatori la riforma volta a realizzare sempre più una Chiesa povera e per i poveri che Bergoglio auspica sembra persino aver peggiorato la situazione, almeno per ora e almeno nella curia romana. Se in Vaticano si facessero sondaggi d'opinione, aldilà delle dichiarazioni di facciatia, il gradimento di Bergoglio (o meglio della situazione di quella che resta comunque una corte) riserverebbe qualche sorpresa. Chiariamo: una subordinazione del laicato, cioè del popolo di Dio, al clero, in Vaticano è da sempre la norma. Tolte poche eccezioni – e chi scrive è stato per anni fra queste – la considerazione del ruolo lavorativo e del servizio svolto è sempre passata in secondo piano rispetto allo status ecclesiale. Negli ultimi anni, però, quelli dell'ultimo Wojtyla malato, di Ratzinger e ancora di Bergoglio, in molti hanno annotato un allargamento – per ricorrere a categorie che appartengono alla politica e non all'ecclesiologia – della forbice tra chi ha potere e chi non lo ha e persino tra arbitrio e diritto.
Ma tra i segni dei tempi non mancano quelli di speranza. Se il pontificato di Papa Francesco non è privo delle spine del governo interno, certo la curia sta dando un contributo - poco raccontato, ma rilevante - al compito di portare al mondo l'azione papale, specialmente nel campo di quella “diplomazia della misericordia” della quale il pontefice ha fatto un caposaldo del suo magistero. Basti pensare alla mediazione vaticana tra Stati Uniti e Cuba o al lavoro cruciale svolto con la Cina, un lavoro nel quale altre diplomazie sembrano da tempo non sapere come muoversi. Per non parlare dei rapporti con l'islam e della barra dritta, lungo la rotta dei diritti dell'uomo, tenuta sulla cosiddetta questione migranti, siano essi in Mediterraneo, in Asia o al confine tra Messico e Stati Uniti.
In estrema sintesi, con Bergoglio si sta compiendo forse definitivamente quel processo, aperto da concilio Vaticano II, di separazione da un occidentalismo a lungo ritenuto identitario del cattolicesimo e rivelatosi più volte nella storia prodromo a scontri di civiltà. La strategia diplomatica della Santa Sede, per dirla con il direttore della Civiltà Cattolica, Antonio Spadaro, gesuita come Bergoglio rinuncia «a una concezione “costantiniana” che cerca un partito, se non un impero, cattolico. Per Francesco, invece, la Chiesa deve essere “in uscita, mai escludente”».