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L'economia del latifondo in Paraguay

L'economia del latifondo in Paraguay - Pierluigi Natalia

  

Prodotto

  

interno lurido

  

12 novembre 2013

 

Il Paraguay è in vantaggio quest'anno nella classifica, cara agli analisti finanziari, della crescita economica in America latina. Per il suo prodotto interno lordo (pil) il Governo di Asunción prevede un aumento nel 2013 del 13,6 per cento. Più cauto è il Fondo mineario internazionale (Fmi) che parla di un 12 per cento, ma sempre in testa alla classifica lo pone. Già: prodotto interno lordo. Bell'aggettivo. Per i cultori dei numeri in economia significa al netto delle spese di produzione. Per molti di coloro che l'economia vorrebbero disciplinata da una politica di primato del lavoro quel lordo può anche significare lurido.

Il Paraguay, più ancora del gigante Brasile, più ancora del Venezuela petrolifero, è il Paese che in proporzione crea più ricchezza. E lo fa nel settore primario, l'agricoltura e l'allevamento. Con appena 6,6 milioni di abitanti, 14 milioni di capi di bestiame e un territorio più vasto della Germania, che di abitanti ne ha ottanta milioni, il Paraguay è ridiventato il pupillo degli signori della finanza. Quest'anno, sono attesi ottimi raccolti agricoli e la Banca centrale ha rivisto per ben volte al rialzo le stime iniziali. L'Fmi non è stato da meno, e ha ritoccato a sua volta al rialzo le previsioni sul pil paraguayano.

Già: prodotto interno lordo. Bell'aggettivo. Per i cultori dei numeri in economia significa al netto delle spese di produzione. Per molti di coloro che l'economia vorrebbero disciplinata da una politica di primato del lavoro quel lordo può anche significare lurido.

Del resto i dati macroeconomici sono altalenanti: l’aumento della crescita in Paraguay segue un anno in cui il pil era sceso dell’1,2 per cento; anche nel 2009 si era registrata una crescita del 13 per cento dopo un piccolo calo l’anno precedente.

Soprattutto, questi numeri a due cifre significano poco in termini sociali. Le autorità di Asunción pongono molta enfasi sul fatto di essere riuscite a debellare la febbre aftosa del bestiame, il che faciliterà l’accesso ai grandi mercati della Russia e del Cile. Meno sottolineato è l'impatto che le dichiarate buone performance economiche hanno o non hanno sulla vita concreta della popolazione. L'aumento del pil arricchisce infatti i latifondisti del Paese, mentre la povertà estrema è salita dal 16,7 al 18 per cento. Il dato, fornito dalll'Undp, il Programma dell’Onu per lo sviluppo, tra l'altro è in controtendenza con i dati del decennio 2001-2011, quando soprattutto negli ultimi anni la cosiddetta povertà relativa era scesa dal 36,8 per cento al 32,4.

Il fatto è che la produzione agro-zootecnica resta concentrata nelle mani di un pugno di latifondisti che sfruttano i campi con molta tecnologia e poca manodopera.

Il Paraguay resta infatti il Paese con la seconda maggiore concentrazione di proprietà terra al mondo: il 2,6 per cento dei proprietari possiede l’85 per cento della superficie agraria, secondo i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura (Fao). La povertà colpisce il 44,8 per cento degli abitanti delle campagne, a causa soprattutto della disoccupazione.

Di fatto l’espansione su vasta scala delle colture destinate all'esportazione, quelle che più fanno crescere il pil e i cui prezzi sono stabiliti dalle grandi multinazionali dell'agroalimentare, ha costretto molta popolazione rurale a emigrare nelle città, facendo così crescere le aree di miseria attorno ai nuclei abitati più grandi. Allo stesso tempo, la ricchezza dei raccolti non ha portato molti introiti nelle casse pubbliche, che sono quelle che raccolgono meno imposte in America latina, pari appena al 12,3 per cento del pil. Soia e carne bovina, principali esportazioni, contribuiscono al 20 per cento del pil ma solo al due per cento delle entrate fiscali.

Il Paraguay, “normalizzato” dopo la rimozione del presidente Fernando Lugo, l'ex vescovo che aveva condotto al successo per la prima volta una coalizione di sinistra, resta dunque un “paradiso liberista”. Del resto, cresca o diminuisca la produzione, il risultato è sempre lo stesso. Anche in Italia, tanto per fare solo un esempio, l'unico dato indiscutibile riguardo alla crisi finanziaria scoppiata nel 2009 (quella negata dal Governo dell'epoca, dato che i ristoranti erano pieni) è che c'è stato uno spostamento di ricchezza dal lavoro alla rendita. Il ceto medio ha subito un costante smottamento verso la povertà e i ricchi sono diventati più ricchi (compresi quei parassiti della cosa pubblica che vengono esaltati come “grandi imprenditori” e vivono in simbiosi con tanti rappresentanti politici, salvo assolvere il ruolo in proprio e per i propri interessi più o meno legali ).

Non a caso, all'inizio dell'anno non ha trovato praticamente spazio nell'informazione italiana (controllata da quei parassiti di cui sopra) una notizia di rilievo assoluto: per la prima volta nella sua storia, l'Fmi a ha aperto a misure di controllo sui flussi di capitale. In un rapporto pubblicato lunedì, l’istituto di Washington – che finora si era distinto soprattutto per i suoi programmi di finanziamento basati su principi liberisti (non liberali, che è un'altra cosa) ha messo a punto un percorso che consentirà di «potenziare i vantaggi e minimizzare i rischi» della liberalizzazione dei flussi di capitale. Forse è ancora presto per parlare di svolta storica, come hanno fatto in molti (ovviamente non in Italia). Ma di fatto si tratta di un'importante novità in linea con le richieste dei Paesi emergenti del cosiddetto Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Per ora il Fondo ha preso atto delle volontà di Governi che complessivamente rappresentano oltre i due terzi della popolazione mondiale – tra l'altro non tutti di sicura democrazia - ma la diga protettiva che da quasi vent'anni mette al riparo gli speculatori ha subito una significativa picconata.

In parole povere – e questo dovrebbe far piacere in Italia, un Paese che la funzione sociale dell'impresa e della finanza la prescrive in Costituzione - il cambiamento politico del Fondo c'è, anche se resta un processo ancora in evoluzione. Certo non sarà il Fondo a dirlo esplicitamente, ma si incomincia a capire che l'economia reale deve prevalere sulla finanza per scongiurarne il carattere depredatorio. E per farlo ha bisogno di decisioni politiche. Anche rivoluzionarie in senso assoluto, come potrebbe essere in sede Onu una riforma del Consiglio economico che lo renda una vera Autorità pubblica a competenza universale per riformare del sistema finanziario internazionale. Una simile autorità al servizio del bene comune è l'unico orizzonte a cui guardare nel tempo della globalizzazione, se davvero si vuole uscire dell’attuale crisi economica e finanziaria figlia di egoismo, cupidigia e accaparramento di beni su grande scala.

A una finanza mondiale svincolata da ogni controllo, figlia di un’ideologia tecnocratica che è oggi il vero volto della destra, si può infatti rispondere muovendo da un nuovo umanesimo globale, ossia da un’etica della solidarietà, nonché dalla subordinazione dell’economia e della finanza alla politica, responsabile del bene comune. Questo non significa demonizzare i mercati monetari e finanziari, ma dire chiaramente che vanno orientati al bene pubblico. È un punto di vista che suppone un salto di qualità rispetto alle istituzioni e ai consessi oggi esistenti. Come detto, incominciano ad accorgersene persino le istituzioni cosiddette di Bretton Woods (Fondo monetario internazionale e Banca mondiale), che nell'ultimo ventennio hanno progressivamente perso il mandato e la vocazione universale di garantire uno sviluppo economico adeguato in modo da ridurre le situazioni di povertà e di disuguaglianza, che anzi hanno in non pochi casi aggravato.

C'è in questi tempi di incertezza e persino di non speranza nel futuro una necessità di discernere il bene dal male non solo nei nostri comportamenti personali, ma anche nell'analisi del contesto storico che attraversiamo e delle vicende che impongono alla nostra vita direzioni e condizioni spesso incontrollabili. E proprio la parola discernimento è la chiave interpretativa per comprendere quali politiche possano mettere in sicurezza non il sistema, come si tende a dire con troppa faciloneria, ma le persone concrete.