Home » Archivio articoli » Il rogo nella fabbrica tessile cinese di Prato

Il rogo nella fabbrica tessile cinese di Prato

Il  rogo nella fabbrica tessile cinese di Prato - Pierluigi Natalia

  

La globalizzazione

  

della schiavitù

  

  

1 dicembre 2013

 

Le condizioni incuranti della dignità dell’uomo che segnano il lavoro in tante parti del mondo, hanno avuto una tragica riprova oggi in Italia, dove sette persone, tutte cinesi, sono morte nell’incendio di una fabbrica tessile a Prato. Le fiamme sono divampate in un capannone dove un centinaio di cinesi non solo lavoravano, ma vivevano e dormivano, in quella che si configura sempre più come una globalizzazione di una sorta di schjiavitù, che in molti sono costretti a subire – e persino a scegliere – per mera sopravvivenza. All’immagine di un lavoro ridotto a prigionia contribuisce quanto emerso dalle prime indagini, cioè che il tentativo di fuga dal capannone incendiato sia stato ostacolato dalle sbarre alle finestre. È stamattina presto, di domenica, mentre stava per cominciare il turno di lavoro, in una realtà che non conosce riposi festivi e che riduce le persone a ingranaggi sempre in attività. E colpisce dolorosamente che nelle centinaia di capannoni vicini si sia continuato, come se nulla fosse accaduto, a produrre quei tessuti che, di subappalto in subappalto, forniscono la materia del made in Italy della moda.

Mentre scrivo queste righe, arriva la notizia, normale in simili circostanze, che la magistratura ha aperto un’inchiesta per omicidio plurimo colposo. Ma la vera responsabilità è quella indicata dal vescovo di Prato, Franco Agostinelli, che si è detto «sgomento di fronte ad una tragedia che ricorda i tempi della rivoluzione industriale» e ha chiesto un soprassalto di umanità nel dire basta «a situazioni di lavoro non degne dell’uomo e delle conquiste sociali degli ultimi decenni». Basta, cioè, «all’illegalità che troppo spesso combina insieme gli interessi immorali di molti pratesi e le attività disinvolte di tanti imprenditori cinesi. Basta allo sfruttamento della manodopera immigrata cinese anche quando assume i connotati dell’autosfruttamento».

Vale ovunque. Ma vale soprattutto in un Paese che si definisce, al primo articolo della sua Costituzione, una Repubblica fondata sul lavoro e che da decenni lo ha ridotto a una variabile secondaria del suo sistema economico. L’appello del vescovo non è rivolto solo alla politica, ma allo stesso mondo produttivo: «Gli imprenditori orientali avvertano l’imperativo morale del dialogo e si lascino aiutare a bonificare le imprese e il lavoro. Imprenditori e sindacati italiani siano la prima linea di questa frontiera».