Sui drammi che straziano le Afriche, a partire dai conflitti pluridecennali e mai davvero venuti meno, a ogni inizio di nuovo anno sembrano riaccendersi speranze, ma subito l'avvio di soluzioni si conferma lontano e, anzi, nuove tragedie accrescono il doloroso fardello di delusioni e frustrazioni. Questo 2019 non fa eccezione. Nella Repubblica Centrafricana, dove Papa Francesco volle aprire il Giubileo, con un segno di fortissima speranza, si continua a morire, per le armi che non tacciono, ma soprattutto di fame e di stenti e per malattie che sarebbe facile sconfiggere, ma che la guerra rende incurabili. In Camerun, da oltre due anni è sfociato in guerra civile il mai risolto contrasto tra la comunità anglofona e il presidente Paul Biya, al potere da trentasette anni e rieletto l'anno scorso. E la violenza non si ferma in Sudan e Sud Sudan e nel Corno d'Africa, soprattutto in Somalia, ma non solo. Così come nella regione dei Grandi Laghi, specialmente nella Repubblica Democratica del Congo, dove a cavallo del passaggio del millennio un conflitto talmente spaventoso da meritarsi il nome di prima guerra mondiale africana causò oltre tre milioni di morti. Un conflitto mai davvero finito.
Qui le elezioni presidenziali dello scorso 30 dicembre per la prima volta dall'indipendenza sono state vinte da un candidato dell'opposizione. Potrebbe sembrare una possibile uscita da una stagnazione venefica e putrida. Ma la fine del potere di Joseph Kabila, succeduto al padre e rimasto presidente per diciotto anni, è solo apparente. Tra l'altro ci sono forti dubbi sull'attendibilità dei risultati. Secondo la Ceni, la commissione elettorale, ha vinto Féliz Tshisekedi, privo di una propria storia politica, ma figlio dello storico oppositore Étienne Tshisekedi. Ma a non crederci sono in molti e soprattutto la Cenco, la conferenza episcopale congolese che ha dispiegato i quarantamila osservatori nei seggi elettorali. Secondo un portavoce della Cenco, “i risultati delle presidenziali pubblicati dalla Ceni non corrispondono a quelli degli osservatori”. Il vincitore, cioè, sarebbe Martin Fayulu, scelto a novembre come candidato unico dell’opposizione congolese, ma dopo appena un giorno abbandonato da Tshisekedi. Fayulu dopo che la Corte costituzionale ha respinto il suo ricorso, ha invitato la popolazione alla disobbedienza civile.
Emmanuel Ramazani Shadary, il delfino di Kabila, è arrivato terzo, ma il partito di Kabila avrebbe vinto le contemporanee elezioni per il Parlamento, mentre i risultati delle presidenziali potrebbero essere stati “aggiustati” per far risultare vincitore il candidato meno pericoloso per l’ex presidente e i suoi alleati. Alleati interni, certo, ma soprattutto internazionali. Perché se i congolesi sono in maggioranza poveri, il Paese è straordinariamente ricco di materie prime che alimentano le economie dei “grandi della Terra”. Del resto, la ricchezza – fossero schiavi, avorio, legname prezioso o da ultimo appunto materie prime - è sempre stata una maledizione per quel popolo dall'arrivo degli occidentali in poi. Ai quali occidentali fa ormai concorrenza la Cina che, per fare solo un esempio, ha acquisito l'anno scorso con la China Molybdenum il controllo della miniera di cobalto di Teke, dove si ricava il 65 per cento mondiale del costoso minerale.
E intanto, soprattutto nell'est del Paese, intere regioni, Nord Kivu, Sud Kivu, Ituri, sono devastate da gruppi armati che la maggiore forza dell'Onu al mondo non riesce a frenare. E lo stesso accade nel sud, in Kasai e Katanga. Così nel ricco Paese che continua a far gola alle multinazionali la vita infernale produce centinaia di migliaia di morti e milioni di sfollati, almeno otto, secondo stime al ribasso, il che lo pone al primo posto nel fenomeno, davanti a Siria, Iraq e Somalia.
A questo si aggiungono le ricorrenti epidemie e nuove minacce per l'agricoltura. I contadini congolesi non scappano solo dai miliziani, ma anche dalle loro terre. Un terzo delle province è colpito dall’infestazione della spodoptera exempta e della Spodoptera frugiperda, due insetti che si nutrono di mais, riso, sorgo e grano. Il primo è indigeno dell'Africa, l'altro, più devastante, è arrivato dall'America un paio d'anni fa e ha già colpito una trentina di Paesi e ha distrutto più di 740.000 acri coltivati a mais, il cibo principale per oltre duecento milioni di africani.
Altre centinaia di migliai di profughi sta provocando il conflitto in Sud Sudan, l'ultimo nato tra gli Stati africani, dove le popolazioni, in particolare nelle regioni di Gbudwe e Tambura e nell'Equatoria occidentale, ancora nelle ultime settimane hanno subito sanguinosi attacchi dei miliziani dell'ex vicepresidente Riek Machar. È infatti rimaso solo sulla carta l'accordo di pace firmato lo scorso agosto tra questi e il presidente Salva Kiir Mayardit.
Né va meglio in Sudan, dove una nuova protesta contro il presidente Omar El Bashir, incominciata spontaneamente il 19 dicembre e via via estesasi, viene repressa da settimane in modo sempre più sanguinoso. El Bashir governa da trent'anni con metodi autoritari. L’uso di milizie filoarabe, i sanguinari Janjaweed, nel conflitto in Darfur, incancrenito da anni e che soprattutto nella sua parte iniziale causò almeno mezzo milione di morti e tre milioni di sfollati, gli costò un'incriminazione della Corte penale internazionale dell’Aja. Questa volta, secondo numerose forti concordi, avrebbe assoldato contractor russi per reprimere le manifestazioni di piazza e individuare i capi della rivolta.
In sudan c'è da anni con un’inflazione record, anche in conseguenza delle sanzioni statunitensi imposte nel 1997 e solo parzialmente rimosse due anni fa. La riduzione dei sussidi statali ha fatto triplicare i prezzi dei generi primari, scatenando proteste già dall’inizio dello scorso anno. Stavolta proteste e repressioni appaiono molto più esasperate e i morti si contano già a decine in diverse zone del Paese, compreso proprio il Darfur, dove minaccia di essere di essere vanificata un'altra delle speranze sulle crisi africane, quella legata all'accordo per il cessate il fuoco la ripresa, stavolta formale, del processo di pace, fermo da anni. L'accordo è stato raggiunto lo scorso dicembre a Berlino tra il Governo sudanese e i ribelli, grazie soprattutto all'azione diplomatica tedesca e prevede che ora nel ruolo di mediatore subentri il Qatar.
La comunità internazionale, in particolare dell'Unione europea, si limita alle denunce. Del resto, tra gli europei l'avvicinarsi delle elezioni del Parlamento di Strasburgo sta esasperando le divisioni e anche l'Africa diventa sempre più un pretesto di accuse reciproche. Da ultima quella rivolta alla Francia dal Governo italiano, secondo il quale il franco africano, la moneta comune a quattordici Paesi africani, cioè uno dei pochi strumenti funzionanti di contrasto delle minacce di dissesto finanziario di tali Paesi, sarebbe in realtà uno strumento di neocolonialismo e una causa delle migrazioni. Né il fatto che da quei Paesi le migrazioni verso l'Europa siano nettamente inferiori a quelle da altre zone africane sembra a chi oggi governa in Italia un particolare rilevante.
Quest'anno si andrà al voto anche in una decina di Paesi africani, comprese Nigeria e Sud Africa, le maggiori economie del continente, e Algeria e Tunisia, determinanti per cercare di riportare la pace nell'Africa settentrionale e nel Mediterraneo. Tutti, ovviamente, sperano che “vinca la democrazia”. Ma senza politiche di sviluppo e di giustizia sociale la democrazia formale non dà da mangiare. Il mercato africano genera introiti anni per oltre cinquecento miliardi di dollari. Ma l'Africa ne spende trecento miliardi per importare beni essenziali che potrebbe produrre internamente, se solo si puntasse su infrastrutture, servizi e agricoltura integata al posto delle macrocoltivazioni destinate ai cunsumi della parte ricca del mondo. E per le popolazioni africane già si annunciano devastanti le conseguenze della guerra dei dazi ingaggiata da Trump con gli altri principali soggetti economici mondiali. Eppure, il prodotto interno lordo del continente – dopo la crisi del 2016 provocata dalla recessione e dal crollo dei prezzi delle materie prime – ha ripreso a crescere a ritmi ben maggiori di quelli dell’Occidente. Ma ancora una volta, questa ricchezza è finita in poche mani e certo non tutte africane. E nemmeno in maggioranza.
Ma pure, qualche significativo segnale di cambiamento c'è. Su tutti va segnalata la pace tra Etiopia ed Eritrea e i primi passi fatti dai due Paesi per consolidarla. Sempre in Etiopia, c'è stata l’elezione a presidente di Sahle-Work Sewede, prima donna a ricoprire quella carica e unica Capo di Stato oggi in tutta l’Africa. Non sembra vuota retorica, almeno a chi scrive, ritenerlo un aspetto importante. Perché un futuro di sviluppo e di pace delle Afriche dovrà passare proprio attraverso l’emancipazione delle donne. O non sarà.