C'è un'affermazione del Papa che mi torna in mente ogni volta che devo confrontarmi con la questione del dialogo, sia interreligioso, sia politico, sociale e culturale, sia persino nella sfera dei rapporti privati. Non si trova in un documento ufficiale, né nei grandi interventi pubblici del pontificato. La disse in una di quelle messe mattutine che celebra nella cappella della Casa di Santa Marta nella quale abita in Vaticano. Era il gennaio del 2014 e Francesco, vescovo di Roma da pochi mesi, commentava il passo biblico nel quale Davide è sotto la minaccia di Saul che vuole ucciderlo, ha l'occasione di essere lui ad uccidere quello che gli è diventato nemico e sceglie invece di avvicinarglisi, di chiarirsi, la strada appunto del dialogo per costruire o per ricostituire la pace. Disse il Papa che il dialogo va perseguito anche a costo di «ingoiare tanti rospi».
E di rospi da ingoiare ne abbiamo tutti. Rospi di risentimento per le offese o le minacce, vere o presunte; rospi per lo scherno spesso subito a causa delle proprie idee; rospi strazianti per il dolore e per le ingiustizie alle quali assistiamo ogni giorno. Tutti e forse più ancora quanti hanno passato e passano la propria vicenda professionale a raccontarli, dal Sud devastato del mondo come dalle nostre società sempre più povere di senso e dominate da egoismi rancorosi.
Né certo il Papa può sottrarsi a questa “dieta” che ci propina la quotidianità, sempre e forse più ancora in quest'epoca cacofonica che tutto globalizza ed esalta, fuorchè i diritti dell'uomo e le condizioni di giustizia sostanziale. La subisce più di altri, anzi, perché prende sul serio il suo compito: essere pontefice, letteralmente colui che costruisce ponti, in un tempo nel quale trovano plauso e consenso quanti costruiscono le proprie fortune politiche nell'erigere muri.
E per mandare giù quei rospi serve una strategia alimentare nutritiva dell'anima. Il Papa, come prima di lui i suoi predecessori nella grande lezione del Concilio Vaticano II, la individua proprio nel dialogo. Lo pratica lui e lo chiede alla Chiesa. Non lo intende solo come atteggiamento virtuoso, di quella virtù che si origina dall'humilitas, letteralmente vicinanza alla terra, alla concretezza del vivere. Ma come senso ontologico dell'essere Chiesa, universale per definizione, priva di confini che la rendano estranea a quanto è umano, ricchezze reali da salvaguardare, ricchezze fittizie da denunciare e combattere.
E lo fa superando - con senso francescano, ma anche con discernimento gesuita - un ostacolo che il suo ruolo renderebbe all'apparenza insormontabile, quello del protagonismo individuale. Perché sa bene che il dialogo, lo stile di dialogo, ha bisogno di un'azione collettiva e costante, che deve essere per la Chiesa tutta strumento irrinunciabile nel cantiere della pace. Dialogo con le altre religioni, con le istituzioni e con la politica. Dialogo con il pensiero, con quanti si suole definire gli intellettuali, forse quello più difficile in quest'epoca di pensiero debole e di opaca visione.
Proprio a degli intelletuali cattolici, i suoi confratelli gesuiti che scrivono Civiltà Cattolica, nel febbraio 2017 Francesco indicò tre questioni cruciali da tenere presenti perché il dialogo si rafforzi: inquietudine, incompletezza del pensiero, immaginazione. In quel discorso, particolarmente caro a chi scrive per la sua allegoria marinara, nel rifarsi all'immagine tradizionale della barca di San Pietro, Francesco invitava gli scrittori di Civiltà cattolica a essere “ponte” e “frontiera”. Parlava a loro, ma di fatto a chiunque di sia chiamato a offrire agli altri i talenti della sua intelligenza, un dono più prezioso di quelli materiali. Perché se una persona dà a un'altra una cosa e ne riceve una in cambio hanno entrambe una cosa ciascuna. Ma se si offrono vicendevolmente un'idea ne hanno entrambe due. E in questo sta una parte della caritas, dell'amore che sfida le leggi matematiche, accrescendosi quanto più si divide.
Inquietudine, dunque. Quell'inquietudine per la ricerca la cui mancanza rende sterili le convinzioni. Secondo Francesco, per abitare ponti e frontiere servono menti e cuori inquieti. Perchè «a volte si confonde la sicurezza della dottrina con il sospetto per la ricerca», mentre «i valori e le tradizioni cristiane non sono pezzi rari da chiudere nelle casse di un museo» dato che «una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo». Di più: in un dialogo che si dia come meta l'ecumenismo e la pace si prende «consapevolezza delle ferite di questo mondo» e si è agevolati nella ricerca di terapie. Si impara «a comprendere il male, ma anche a versare olio sulle ferite aperte, a guarire».
Per essere efficace questo dialogo deve riconoscere e temere l'incompletezza del proprio pensiero. Francesco sollecita a lasciarsi «guidare dallo spirito profetico del Vangelo per avere una visione originale, vitale, dinamica, non ovvia. Specialmente oggi, in un mondo così complesso e pieno di sfide in cui sembra trionfare la “cultura del naufragio” – nutrita di messianismo profano, di mediocrità relativista, di sospetto e di rigidità – e la “cultura del cassonetto”, dove ogni cosa che non funziona come si vorrebbe o che si considera ormai inutile si butta via».
Perché «la crisi è globale ed è quindi necessario rivolgere il nostro sguardo alle convinzioni culturali dominanti e ai criteri tramite i quali le persone ritengono che qualcosa sia buono o cattivo, desiderabile o no. Solo un pensiero davvero aperto può affrontare la comprensione di dove sta andando il mondo, di come si affrontano le crisi più complesse e urgenti, la geopolitica, le sfide dell’economia e la grave crisi umanitaria legata al dramma delle migrazioni, che è il vero nodo politico globale dei nostri giorni».
Per il pensiero la rigidità e un nemico che si chiama fondamentalismo. Francesco respinge l'idea di concepire l'identità cattolica in modo rigido, con atteggiamento di chiusura, cedendo alla tentazione di contarsi e di serrare le fila contro il mondo moderno. Una tentazione alla quale cedono non poche persone.
Ma il pericolo del fondamentalismo non riguarda solo le religioni. Il pensiero rigido è una minaccia in politica e in sociologia quando se ne fa strumento di analisi della realtà (“i cristiani sono così, gli islamici sono cosà”, “gli europeisti sono così, i sovranisti sono cosà” et coetera). Perchè produce comunità religiose, impostazioni politiche, condizioni sociali rachitiche e asfittiche. E questo significa culture morte. Invece «la cultura viva tende ad aprire, a integrare, a moltiplicare, a condividere, a dialogare, a dare e a ricevere all’interno di un popolo e con gli altri popoli con cui entra in rapporto».
Il Papa non è un sognatore che ignora la realtà del suo tempo, né fa sconti nel denunciarne le storture, prima tra tutte il cedimento allo strapotere di un'economia e di una finanza che uccidono. Ma non accetta fughe – perchè chiudersi è un modo di fuggire – atteggiamenti millenaristici da “fine del mondo”, visioni geopolitiche apocalittiche. Il pensiero per essere forte ha bisogno di scrutare la realtà, di contribuire a raddrizzarne le storture, di mettersi sempre in atteggiamento dialogante per immaginare e realizzare i miglioramenti.
Immaginazione, dunque, che il Papa gesuita indica come strumento di discernimento. Questo, infatti, «nella Chiesa e nel mondo è il tempo del discernimento. Il discernimento si realizza sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente che conosce la via umile della cocciutaggine quotidiana, e specialmente dei poveri. La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita. Ma bisogna penetrare l’ambiguità, bisogna entrarci, come ha fatto il Signore Gesù assumendo la nostra carne. Il pensiero rigido non è divino perché Gesù ha assunto la nostra carne che non è rigida se non nel momento della morte».
Si, i rospi da ingoiare sono molti, a partire da quelli che gli servono in tavola quei cattolici che ascoltano il Papa solo quando è d'accordo con loro. Ma a digerirli aiuta la speranza, la piccola ostinata speranza, la bambina che tiene per mano le due grandi sorelle, fede e carità, come diceva con poetica espressione Charles Péguy. E alla poesia fece riferimento anche Francesco in quel discorso, citando un verso di Baudelaire, proprio di quel “poeta maledetto” la cui opera fu a suo tempo messa dalla Chiesa nell'Indice dei libri proibili. «La vie afflue et s’agite sans cesse, / Comme l’air dans le ciel et la mer dans la mer». E si: anche secondo Francesco «la vita è fluida e si agita senza sosta come si agita l’aria in cielo e il mare nel mare. Il pensiero della Chiesa deve recuperare genialità e capire sempre meglio come comprendere l'uomo di oggi per sviluppare e approfondire il proprio insegnamento. E questa genialità aiuta a capire che la vita non è un quadro in bianco e nero. È un quadro a colori. Alcuni chiari e altri scuri, alcuni tenui e altri vivaci. Ma comunque prevalgono le sfumature. Ed è questo lo spazio del discernimento, lo spazio in cui lo Spirito agita il cielo come l’aria e il mare come l’acqua».
C'è questa convinzione all'origine di quella più generale che caratterizza Francesco e il suo pontificato, cioè la necessità che la Chiesa sia “in uscita”, sia condotta dalla creatività evangelica. Del resto, non è una convinzione che ha maturato da Papa. In una lettera ai sacerdoti della diocesi di Buenos Aires del 2007, l'allora cardinale Bergoglio ammoniva che «bisogna stare attenti a che l’orizzonte non si avvicini a tal punto da diventare un recinto. L’orizzonte deve essere realmente aperto». Chi scrive non può sapere se i cardinali che lo hanno eletto in conclave ne fossero o meno a conoscenza, ma certo lo sapeva lo Spirito Santo.