Home » Archivio articoli » Guerra civile a due anni e mezzo dall'indipendenza

Guerra civile a due anni e mezzo dall'indipendenza

Guerra civile a due anni e mezzo dall'indipendenza - Pierluigi Natalia

  

Sangue e petrolio

  

in Sud Sudan

  

3 gennaio 2014

 

«Siamo pronti a discutere della fine delle violenze, è nell’interesse di tutti noi. Discuteremo anche di altre questioni importanti, relative alla spartizione del potere». Questa dichiarazione spiega meglio di tante altre cosa sia in ballo in Sud Sudan, dove a metà dicembre è scoppiato un conflitto tra reparti dell’esercito fedeli rispettivamente al presidente Salva Kiir Mayardit e all’ex vice presidente Riek Machar, rimosso dall’incarico lo scorso luglio. La dichiarazione in questione è stata rilasciata questa mattina alla Bbc da Yohanes Pouk, il portavoce della delegazione dei sostenitori di Riek Machar ai negoziati che si sono aperti ad Addis Abeba, la capitale dell'Etiopia, con la mediazione dall’Autorità intergovernativa per lo sviluppo (Igad), organizzazione di sei Stati dell’Africa orientale, della quale appunto l'Etiopia ha in questo momento la presidenza di turno. Le parti per ora hanno incontrato solo i mediatori, ma tra domani e dopodomani incominceranno colloqui diretti. Non ci sono state conferme, finora, del fatto che ad Addis Abeba saranno presenti personalmente sia Salva Kiir Mayardit sia Riek Machar, come prospettato ancora questa mattina da fonti del ministero degli Esteri etiopico, in quella che a molti osservatori è sembrata più una pressione diplomatica che la comunicazione di una notizia

Spartizione del potere, dunque. Il che in Sud Sudan, il più giovane Stato del mondo, diventato indipendente dal Sudan nel luglio 2011, significa essenzialmente spartizione del controllo sul petrolio. Questo, come spesso accade in Africa, s'innesta però su contrasti etnici mai sopiti. Salva Kiir Mayardit appartiene ai dinka, l'etnia maggioritaria, mentre Riek Machar è un nuer. I rapporti tra le due etnie sono stati molto tesi in passato, ma sembravano essere stati messi da parte nella comune militanza nell'ultraventennale conflitto delle popolazioni sudsudanesi con Khartoum. Né la componente etnica era sembrata motivo di scontro nei sei anni e mezzo trascorsi tra l'Accordo generale di pace che mise fine a quel conflitto, il 9 gennaio 2005, e la dichiarazione d'indipendenza sudsudanese del 9 luglio 2011, seguita a un esito plebiscitario in questo senso di un referendum.

Il dinka Salva Kiir Mayardit, tra l'altro, almeno all'apparenza, non aveva mai fatto condizionare la sua azione politica dall'appartenenza etnica negli ormai otto anni che lo avevano visto guidare il suo popolo, come successore di John Garang, il leader storico della ribellione sudsudanese contro Khartoum, morto in un incidente areo – sul quale si fecero molte chiacchiere e congetture, ma che un'indagine dell'Onu dichiarò essere stato proprio tale – poche settimane dopo aver firmato quello storico accordo.

Negli ultimi anni, non erano mancati scontri su basi etniche, in particolare nello Stato dello Jonglei, ma i problemi sudsudanesi erano sembrati essere più esterni che interni, soprattutto per le irrisolte questioni con Khartoum. Ora, invece, le tensioni interne sono esplose in un conflitto che minaccia la tenuta stessa del giovanissimo Stato. Oltretutto, l’avvio dei negoziati non ha fermato le armi. Combattimenti sono stati segnalati anche oggi negli Stati di Jonglei e di Unity.

Finora negli scontri, incominciati nella capitale Juba tra reparti della Guardia repubblicana, sono morte almeno mille persone e circa duecentomila sono state costrette a lasciare le loro case per cercare rifugio presso le basi dell’Onu o oltre confine. Le agenzie umanitarie hanno lanciato un appello per chiedere un immediato aiuto per queste persone. Le condizioni sono peggiorate, per esempio, nel capo profughi di Awerial, sulle sponde nel Nilo, dove sono ospitate circa 75.000 persone fuggite da Bor, la capitale dello Jonglei, passata tre giorni fa nelle mani dei ribelli.

E torna a farsi evidente il pericolo che il conflitto si allarghi e riprenda a divampare lungo il tormentato e non ancora ben definito confine tra Sudan e Sud Sudan. Non sembrano infatti tanto stabili le parziali intese raggiunte dai Governi di Khartoum e di Juba nel negoziato dello scorso anno ad Addis Abeba, in quel caso con la più autorevole mediazione dell'Unione africana. In quel caso, i mediatori preferirono chiudere la trattativa una volta ottenuti accordi per riprendere la produzione di petrolio, che Juba aveva interrotto, non intendendo pagare il transito per glio oleodotti di Khartoum. Certamente questo era e resta un punto cruciale per i due Paesi, oltre che per gli interessi di diversi attori stranieri. Tuttavia a ostacolare le speranze di pace restano altre questioni lasciate irrisolte. Tra queste c'è quella dei confini, molto delicata non solo per il controllo delle risorse petrolifere e degli oleodotti, ma anche per la secolare presenza di pastori nomadi che hanno relazioni complesse con le popolazioni sedentarie. Ed anche questa è una storia che si ripete nella maggior parte dei conflitti africani.