Gli scontri armati tra truppe regolari della Repubblica Democratica del Congo e del Rwanda registrati negli ultimi giorni nella regione orientale congolese del Nord Kivu hanno bruscamente accresciuto la tensione mai sopita tra i due Paesi. Diversi osservatori temono una deriva e un’escalation di tale tensione, tanto più pericolosa in un’area, l’est congolese, nella quale da decenni si traduce in irrisolte violenze l’intrigata interconnessione tra le diverse crisi della regione dei Grandi Laghi.
I combattimenti, dei quali i Governi di Kinshasa e di Kigali si rimpallano la responsabilità, hanno fatto seguito a sconfinamenti delle rispettive truppe, peraltro non infrequenti lungo una frontiera, quella tra Nord Kivu e Rwanda, mai concordemente demarcata. A questo aspetto ha fatto riferimento anche Martin Kobler, il responsabile della Minusco, la missione dell’Onu nella Repubblica Democratica del Congo. Kobler, nel suo appello ai due Governi ha esortato a ripristinare la sicurezza nelle zone di confine e a «risolvere in modo pacifico le questioni relative alla demarcazione della frontiera comune».
Tuttavia, questo sembra solo un aspetto — e forse neppure il più importante — della questione aperta da sempre tra Kinshasa e Kigali. Questione il cui fulcro è rappresentato dalla presenza nell’est congolese, soprattutto proprio in Nord Kivu, di numerose bande armate.
Tra l’altro, il diretto coinvolgimento di truppe regolari negli scontri di questi giorni rappresenta l’episodio più grave da quasi due anni a questa parte, cioè da quando l’artiglieria rwandese aprì il fuoco da oltre confine contro le truppe congolesi all’offensiva contro i ribelli del movimento del 23 marzo (M23). Kinshasa ha sempre accusato il Rwanda (e anche l’Uganda) di aver sostenuto i ribelli, una tesi avallata anche dai rapporti dell’Onu. Né a far venire meno i motivi di tensione sono bastate la sconfitta e la resa, più di un anno fa, dell’M23, formato da ex guerriglieri di etnia tutsi, quella oggi al Governo a Kigali.
Ora le milizie che sembrano al centro del contrasto sono quelle delle Forze democratiche di liberazione del Rwanda (Fdlr), riparate in territorio congolese per sfuggire alle vendette per il genocidio dei tutsi in Rwanda del 1994. Le Fdlr sono tra le milizie straniere contro le quali l’esercito congolese e la Monusco hanno avviato operazioni dopo la sconfitta dei ribelli interni dell’M23. Di recente, però, si è concordato un processo di disarmo volontario dei ribelli hutu rwandesi e proprio a questo il portavoce del Governo congolese, Lambert Mende, ha collegato gli scontri armati di questi giorni, attribuendoli a un atto deliberato di provocazione da parte di Kigali, proprio per far fallire i negoziati in corso.
Il disarmo delle Fdlr è sempre stato chiesto da Kigali, che peraltro ora non nasconde di ritenere l’attuale processo organizzato da Kinshasa in modo da favorire il ritorno in patria dei miliziani hutu a condizioni inaccettabili e tali da costituire una minaccia.
Diversa, ovviamente, è la valutazione del Governo congolese. «La prospettiva di successo del disarmo delle Fdlr dispiace ad alcuni responsabili di Kigali. È come se venisse tolto il pretesto con il quale, da sempre, vengono a raccogliere i frutti del loro saccheggio in Congo», ha dichiarato Mende a Radio Opaki, l’emittente dell’Onu.
Il termine saccheggio non è usato a caso ed è indubbiamente quello che meglio esprime il vero motivo per il quale la pace nell'est congolese non si riesce a raggiungere. Le ricchezze congolesi, fossero gli schiavi dell’epoca della penetrazione occidentale od oggi il coltan, la lega minerale naturale strategica per le moderne tecnologie, sono sempre state la vera maledizione per le popolazioni di quel Paese, dato che ne hanno beneficiato colonizzatori o invasori stranieri e dirigenze politiche locali quasi sempre depredatorie. Sulle popolazioni si è riversato ben poco di questa ricchezza e le condizioni per i traguardi veri di sviluppo, prima tra tutte appunto la pace, non hanno mai trovato effettiva attuazione.