Il tema scelto da Papa Francesco per la Giornata mondiale della Pace 2017 - «La non violenza: stile di una politica per la pace» - costituisce un passo ulteriore del ministero di questo pontefice. Un ministero, cioè, che va chiarificandosi nella direzione dell'impegno, appunto politico, per la costruzione di rapporti internazionazionali improntati a giustizia. Quella del prossimo 1° gennaio è la cinquantesima edizione della Giornata, istituita da Paolo VI nel 1968. In questo cinquantennio, i messaggi dei Papi per la gionata, inviati alle cancellerie ditutto il mondo, sono andati sempre più delineandosi come contributi significativi alla causa della pace. Anno per anno – in significativa congiunzione con i discorsi rivolti, sempre a gennaio, agli ambasciatori dei Paesi accreditati presso la Santa Sede - hanno segnato la linea vaticana in diplomazia e in politica.
Nei tre precenti messaggi dopo la sua elezione - “Fraternità fondamento e via della pace” nel 2014, “Non più schiavi ma fratelli” nel 2015, “Vinci l'indifferenza e conquista la pace” nel 2016 – l'attenzione del Papa si era concentrata sull'aspetto etico e persino antropologico della ricerca della pace. Stavolta si va oltre. Francesco invita a scegliere tra due modi opposti e inconciliabili di costruire la società, cioè da un lato la pace e dall'altro violenza che continua a squassare l'umanità, a ogni latitudine, in quella che definisce "terza guerra mondiale a pezzi".
La non violenza, non solo come scelta personale, ma come strumento d'azione politica, là dove è stata sperimentata, non ha mancato di ottenere risultati importanti. Si pensi all'India di Gandhi o al Sud Africa di Mandela. Risultati, però, spesso ridotti e persino vanificati da contesti – locali e più ancora globali – di predominio del conflitto, dell'ingiustizia, della prevaricazione del più forte sul più debole.
I motivi di sconforto non sembrerebbero dunque mancare. Il primato della forza del diritto sul diritto della forza - per usare un'espressione che non è uno slogan di moderni pacifisti sentimali, ma la defizione di Tacito della differenza tra civiltà e barbarie - sembrerebbe un'illusione più che un progetto da perseguire. Ma è proprio a questo atteggianento che il Papa invita a opporsi. L'obiettivo è chiaro anche se le strade per raggiungerlo appaiono accidentate e difficili da praticare. Papa Francesco invita cioè tutti, soprattutto i responsabili dei governi del mondo, a cercare gli spazi d'azione, sempre possibili da trovare, negoziando appunto strade di pace, anche là dove appaiono tortuose e persino impraticabili.
La non violenza, secondo il Papa, non è dunque solo aspirazione, afflato, rifiuto morale del conflitto e delle barriere, dell'impulso – tanto spesso indotto da politici beceri in alleanza con una plutograzia predatoria – a rifiutare e persino a distruggere l'altro. La non violenza è invece un metodo politico realistico, aperto alla speranza e fondato, appunto, sul primato del diritto. Se i diritti e la dignità di ogni essere umano sono salvaguardati, se discriminazioni e distinzioni sono rifiutate, il metodo non violento può realisticamente superare i conflitti armati.
Nelle attuali circostanze geopolitiche, lo sforzo da compiere, secondo il Papa, è ottenere la risoluzione delle controversie attraverso il negoziato, evitando che esse degenerino in guerra. Si tratta, cioè, di riconoscere il primato della diplomazia su quello delle delle armi. In questo senso ha peso la coscienza di un nemico in genere poco denunciato dai grandi mezzi di comunicazione sociale, quel traffico mondiale delle armi che è l'unico settore economico a non conoscere mai crisi. E che non è, come si potrebbe credere, conseguenza del proliferare dei conflitti, ma sua causa e suo principale alimento. Non a caso, i conflitti armati si protraggono sempre più a lungo. Il Papa non nasconde di ritenere indispensabile arginare questo flagello e iscrive anche questo scopo nel suo auspicio di non violenza come stile politico.
Certo, lo scenario non sembra essere favorevole ad accogliere questo invito. In tutto il mondo – e segnatamente nell'Occidente che resta opulento eppure si sente impoverito – prevale da tempo un egoismo becero frutto da un lato di ignoranza e dall'altro di perdita di senso. Aumentano i successi, in termini di consenso, dei populismi di ogni matrice, da quella nazionalistica e quella pseudoreligiosa. E sembrano riproporsi, grazie anche a una globalizzazione fatta solo di interessi finanziari e che ha reso i ricchi sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, gli spettri che hanno portato alle grandi tragedie del Novecento, dal razzismo all'odio di classe o confessionale, dalle dittature disumanizzanti alle guerre mondiali.
Lo scenario non sembrerebbe dunque propizio all'ottimismo o alla speranza. Ma il messaggio del Papa lo è. Mostra infatti una speranza fatta non di attesa generica che le cose cambino, ma di impegno determinato a moficarle, a curare questa malattia, presente da sempre nella storia dell'uomo, ma ora con spaventose caratteristiche epidemiche.
Il pontefice (in latino letteralmente “costruttore di ponti”) si contrappone con convinzione e visione a una deriva che oggi sembra vincente, quella che premia e cavalca l'odio e la paura, innalza muri e barriere. A quanti si alimentano di ingiustizia globale, il magistero petrino torna a rammentare come lo stile non violento di costruzione della pace abbia strumenti di lavoro che oggi in troppi sembrano aver dimenticato, soprattutto il superamento dell'idea secondo la quale una parte sia moralmente superiore a un'altra, con il corollario dell'indifferenza di tante Nazioni ricche alle tragedie di quelle povere.
Dopo cinquan'anni restano pregnanti e purtroppo ancora attuali, le parole con le quali Paolo VI accompagnò l'istituzione della Giornata, per sottolineare “... la necessità di difendere la pace nei confronti dei pericoli, che sempre la minacciano: il pericolo della sopravvivenza degli egoismi nei rapporti tra le Nazioni; il pericolo delle violenze, a cui alcune popolazioni possono lasciarsi trascinare per la disperazione nel non vedere riconosciuto e rispettato il loro diritto alla vita e alla dignità umana; il pericolo, oggi tremendamente cresciuto, del ricorso ai terribili armamenti sterminatori, di cui alcune potenze dispongono, impiegandovi enormi mezzi finanziari, il cui dispendio è motivo di penosa riflessione, di fronte alle gravi necessità che angustiano lo sviluppo di tanti altri popoli; il pericolo di credere che le controversie internazionali non siano risolvibili per le vie della ragione, cioè delle trattative fondate sul diritto, la giustizia, l'equità, ma solo per quelle delle forze deterrenti e micidiali”.
Paolo VI ricordava che “la pace si fonda soggettivamente sopra un nuovo spirito, che deve animare la convivenza dei Popoli, una nuova mentalità circa l'uomo ed i suoi doveri ed i suoi destini” e come fosse necessario un lungo cammino “per rendere universale e operante questa mentalità”, sottolineando che “una nuova pedagogia deve educare le nuove generazioni al reciproco rispetto delle Nazioni, alla fratellanza dei popoli, alla collaborazione delle genti fra loro, anche in vista del loro progresso e sviluppo”.
In merito, Paolo VI aggiungeva che “gli Organismi internazionali, istituiti a questo scopo, devono essere sostenuti da tutti, meglio conosciuti, dotati di autorità e di mezzi, idonei alla loro grande missione”. Questa scelta, purtroppo, sembra oggi in arretramento, tra veti reciproci e tendenze a politiche di difesa dei privilegi a scapito di quelle di cooperazione. Quanto pure èstato fatto minaccia di perdersi. Anche per questo, a mezzo secolo di distanza, Papa Francesco rinnova le denunce e gli inviti del suo predecessore e torna a indicare uno stile e un progetto da perseguire con fede nel Signore e fiducia nell'uomo.