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Nei rapporti con Washington e sul Kosovo

Nei rapporti con Washington  e sul Kosovo - Pierluigi Natalia

 

La Serbia

  

cambia passo

  

25 agosto 2013


 

Se due indizi fanno una prova, il Governo di Belgrado ha cambiato decisamente passo e politica rispetto agli anni anche recenti. Il primo indizio è la svolta nella questione del Kosovo (una spina che tormenta da almeno un quindicennio la popolazione serba). Il secondo viene dai nuovi rapporti con gli Stati Uniti, fino a non molto tempo fa considerati il principale nemico. In effetti, nelle guerre i seguite al disfacimento dell'ex Jugoslavia era stato proprio il Governo di Washington, all'epoca guidato dal presidente Bill Clinton, a determinare la sconfitta e il ridimensionamento della Serbia, con gli interventi della Nato prima in Bosnia ed Erzegovina nel 1995 e poi nel Kosovo stesso nel 1998-1999.

 

La primavera e l'estate appena trascorse ha fatto segnare un accordo di massima nel negoziato tra le autorità di Pristina, espressione della maggioranza albanese della popolazione kosovara, e il Governo di Belgrado - che comunque non recede dalla rivendicazione della sovranità sul Kosovo - e dunque un successo delle pressioni in merito esercitate da anni dall'Unione europea, che a tale esito aveva subordinato il via libera al processo di avvicinamento e in prospettiva di ingresso della Serbia. Belgrado ha dovuto prendere atto che il rischio di isolamento europeo era troppo forte e che neppure il rapporto privilegiato con il tradizionale alleato russo avrebbe potuto compensare ulteriori ritardi per un Paese che lungo questo cammino ha la peggior posizione tra quelli emersi dalla dissoluzione dell'ex Jugoslavia (Dopo che la Slovenia lo è da anni, ora anche la Croazia, coinvolta quanto la Serbia nelle guerre degli anni 90, è ormai il 28° Stato dell'Unione).

 

Nella settimana appena trascorsa ci sono state diverse conferme della mutata politica di Belgrado. Da un lato si è registrato un rimpasto di Governo apparso significativo, anche per il coinvolgimento, in qualità di collaboratori e consulenti, di autorevoli esperti e politici stranieri. Dalla compagine ministeriale, tra l'altro, è uscito il Partito delle regioni, guidato da Mlađan Dinkić,  finora ministro dell’Economia e Finanze. Il dicastero è stato diviso e le competenze in materia di finanza sono state affidate a Lazar Krstic, un economista trentenne che ha studiato negli Stati Uniti e che lavorava come esperto alla compagnia di consulenza McKinsey. A sostenere il Governo in Parlamento sono ora il Partito socialista del premier Ivica Dačić e il Partito del progresso, la formazione più forte, guidata dal vice premier Aleksandar Vučić. Soprattutto l'apertura a contributi esterni, comunque, testimonia della volontà di mettere un freno agli aspetti più pericolosi di un nazionalismo che in Serbia ha sempre attecchito con facilità.

 

Ma ormai molta acqua è passata sotto i ponti della Sava e del Danubio, i fiumi che si congiungono a Belgrado, bombardata quindici anni fa per 78 giorni consecutivi dagli aerei della Nato che partivano dalla base italiana di Aviano. Lo dimostra anche il vertiginoso aumento di quest'anno, oltre il 70 per cento, delle esportazioni serbe negli Stati Uniti. Il mutato rapporto con Washington, è stato ribadito, sempre la scorsa settimana, dallo stesso Dačić, che ha ricevuto a Belgrado Jonathan Moore, direttore dell’ufficio per l’Europa centromeridionale del dipartimento di Stato americano. Argomento del colloquio sono stati l’attuazione degli accordi raggiunti fra Pristina e Belgrado e i preparativi per le elezioni amministrative fissate in Kosovo per il 3 novembre. Moore ha incontrato anche il direttore dell’ufficio governativo serbo per il Kosovo, Aleksandar Vulin, e Marko Đurić, uno dei principali consiglieri del presidente serbo Tomislav Nikolić, oltre che uno dei negoziatori con i kosovari albanesi. A tutti gli interlocutori belgradesi il diplomatico statunitense ha assicurato l’appoggio di Washington al processo di integrazione europea della Serbia e agli sforzi di soluzione della crisi del Kosovo. In tutti i colloqui, soprattutto, è stato constatato un netto miglioramento e rafforzamento delle relazioni bilaterali con gli Stati Uniti, destinati a divenire — secondo quanto reso noto da entrambe le parti — il primo Paese investitore in Serbia.

 

Sulla questione kosovara, peraltro, pesa l’intransigenza della minoranza serba della popolazione, decisa a non riconoscere in alcun modo legittimità alle autorità di Pristina e i cui rappresentanti hanno invitato al boicottaggio delle elezioni del 3 novembre. A metà agosto, i membri dell’Assemblea provvisoria del Kosovo, espressione della minoranza serba, che vive in Kosovo a nord del fiume Ibar hanno votato ieri all’unanimità una dichiarazione che definisce le elezioni convocate dal presidente kosovaro albanese Atifete Jahjaga inaccettabili, in conflitto non solo con le leggi della Serbia, ma anche con la risoluzione 1244 del Consiglio di sicurezza dell’Onu che a suo tempo riaffermò la sovranità serba sul Kosovo. Nella dichiarazione si ribadisce che il Kosovo resta per i serbi, oltre che per numerosi Paesi, «uno Stato non riconosciuto».

 

La presa di posizione ha contrariato Dačić, il, quale ha ripetuto in settimana che quanti in Kosovo attuano una politica contraria a quella del Governo di Belgrado resteranno isolati. «Al punto in cui siamo è interesse vitale dei serbi del Kosovo di avere propri rappresentanti eletti in modo legittimo e legale e riconosciuti dalla comunità internazionale, e non presentati come capi di strutture parallele che non riconosce nessuno», ha detto il premier serbo, ribadendo che il Governo di Belgrado sostiene la presentazione di una lista unica di candidati serbi. Questa scelta era stata riaffermata poche ore prima anche dal presidente Nikolić in un ennesimo incontro i con i rappresentanti serbi kosovari, ma al momento la posizione di questi ultimi non si è modificata.

 

             Peraltro, anche tra Belgrado e Pristina la questione è tutt'altro che risolta. Proprio Đurić, ha detto che «la Serbia non accetterà un’elezione che preveda anche un solo simbolo del falso Stato del Kosovo, e ciò si riferisce all’intero territorio del Kosovo», cioè non solo al nord dove è concentrata la minoranza serba kosovara. Secondo il consigliere presidenziale, questo era espressamente concordato nelle intese dello scorso aprile a Bruxelles. Di parere diametralmente opposto è il vice premier kosovaro albanese, Hajredin Kuqi, il quale ha risposto che il voto si terrà nel rispetto della costituzione e delle leggi del Kosovo e che quindi è da escludere la rimozione dei simboli statali dalle schede elettorali. In ogni caso, si tratta di un'altra pietra d'inciampo che Dačić dovrà affrontare nel già fissato incontro di questo martedì 27 agosto con il primo ministro kosovaro albanese Hashim Thaçi e con l'alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell'Unione europea, Catherine Ashton