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La ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi

La ripresa dei negoziati tra israeliani e palestinesi - Pierluigi Natalia


 I passi anchilosati

  

della pace

  

  13 agosto 2013


In un contesto regionale profondamente mutato tanto dagli avvenimenti seguiti alle cosiddette primavere arabe tanto dal conflitto che da oltre due anni devasta la Siria — oltre che dagli sviluppi politici in Iran —  riprendono questo 14 agosto i negoziati diretti tra israeliani e palestinesi. Dopo tre anni di interruzione, si torna  cioè a confrontarsi con quella che dalla fine della seconda guerra mondiale è la principale questione mediorientale irrisolta.
Non è un cammino facile. Dopo le speranze più volte andate deluse per quasi quattro decenni, a partire dagli accordi di Camp David del 1978, il processo negoziale appare anchilosato e sembra difficile rimuovere le pregiudiziali reciproche su punti riguardo ai  quali  le posizioni non sono in pratica mutate, a partire dalla questione della sovranità su Gerusalemme, città considerata santa da tutte le tre principali religioni del Medio Oriente,  e da quella degli insediamenti israeliani che continuano ad aumentare in territori che i palestinesi considerano destinati  a formare il loro futuro Stato.
Le aspettative degli osservatori volgono dunque all’ottimismo meno che in altre occasioni del passato, sebbene sia chiaro come il presidente statunitense Barack Obama abbia fatto della questione una priorità assoluta del suo secondo mandato. Lo dimostrano le numerose missioni condotte nell’area dal suo nuovo segretario di Stato, John Kerry, e la riunione a Washington dello scorso luglio che ha registrato  il consenso delle due parti alla ripresa dei negoziati diretti.
Ma è anche vero che proprio in questi giorni si registra un livello raramente tanto basso, dalle fine della guerra fredda, dei rapporti tra Stati Uniti e Russia, cioè tra i due protagonisti principali dell’azione diplomatica degli anni scorsi volta ad arrivare alla soluzione dei due Stati, lungo una road map della quale proprio Washington e Mosca, insieme a Onu e Unione europea, loro partner nel cosiddetto quartetto, intendevano farsi garanti. Non è un caso se in questa nuova fase il protagonismo della mediazione sia praticamente in carico all’Amministrazione Obama, al di là delle dichiarazioni di sostegno di altri soggetti internazionali, da ultima l’Alto rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dell’Unione europea,  Catherine Ashton, che ha invitato la parti a  «evitare passi che possono minare il negoziato».
Il riferimento sembra diretto al Governo israeliano che domenica scorsa  ha alternato  gesti distensivi ad  annunci che hanno invece  riportato tensione. Da un lato è stato approvato il rilascio, entro 48 ore, dei primi 26 dei 104 prigionieri, parte delle  concessioni fissate a Washington in luglio per la ripresa dei negoziati. Dall’altro, nelle stesse ore, il  ministro dell’Edilizia israeliano, Uri Ariel, del partito nazionalista Focolare ebraico, ha annunciato la costruzione di  altre  1.200 unità abitative a   Gerusalemme est e in Cisgiordania, suscitando l’ira dei palestinesi, ma anche critiche di alcune forze politiche israeliane, non solo della sinistra all’opposizione, ma anche governative. Per esempio,  il ministro delle Finanze Yair Lapid  ha parlato di «bastone tra le ruote della pace».
Esplicito in merito è stato anche Kerry in una nota nella quale riafferma che  il Governo di Washington «non accetta la legittimità della continua attività di colonizzazione», pur invitando i palestinesi a «non reagire sfavorevolmente» all’annuncio israeliano per non vanificare la ripresa  del negoziato.
Su questi colloqui, peraltro,  non peseranno  solo le questioni bilaterali e le scelte di Obama, alla ricerca di risultati significativi in politica estera (e niente lo sarebbe più di un accordo che metta fine al pluridecennale conflitto israelo-palestinese). Un ruolo avrà proprio il contesto attuale, in particolare le crisi in Siria e in Egitto. Soprattutto quest’ultima rappresenta una pesante incognita tanto per gli israeliani quanto per i palestinesi. In merito  ci sono incertezze anche a Washington. Il  numero due del dipartimento di Stato americano, William Burns, ha di recente espresso la sua preoccupazione che l’esercito perda il controllo della situazione e che questa  degeneri nel caos, con l’inasprirsi delle violenze del Sinai, a ridosso della Striscia di Gaza, dove si sta diffondendo l’azione dei gruppi islamisti.
Se i  consiglieri di Obama continuano a interrogarsi sul proseguimento del sostegno ai militari egiziani, non sembra invece avere dubbi in merito il Governo israeliano, che ha infatti  approvato la scelta di Abdel Fattah El Sissi, vice premier egiziano e ministro della Difesa nell’Esecutivo di El Beblawi, di rafforzare il dispositivo militare  nel Sinai, cosa mai accaduta dall’epoca di  Camp David. Una spiegazione potrebbe venire dal  legame storico tra Hamas e i Fratelli musulmani: il destituito presidente Mursi è stato infatti accusato di aver complottato con esponenti del movimento che controlla Gaza, il cui statuto prevede la cancellazione di Israele e la costituzione di uno Stato islamico palestinese.
In ogni caso, alcuni osservatori ritengono che lo stallo della diplomazia internazionale sulla questione siriana e il braccio di ferro in Egitto tra islamisti e militari potrebbero mettere la questione israelo-palestinese in questo momento in secondo piano o, peggio, provocare effetti negativi. Altri  sottolineano,  però,  come il leader israeliano  Benjamin Netanyahu e quello palestinese Abu Mazen siano coscienti della necessità di dialogare proprio per evitare che Israele e Territori palestinesi subiscano le conseguenze di tale situazione regionale di instabilità. Del resto, l’impegno a  trasformare una crisi in un’opportunità è da sempre uno dei modi per fare passi di pace, per anchilosati che siano. 
Sullo sfondo resta la questione dell’Iran,  che il Governo israeliano continua a ritenere la principale minaccia da cui guardarsi e dove ancora non si è chiarito che svolta e di che tipo sia realmente destinata a rappresentare l’elezione alla presidenza di Hassan Rohani.