di Pierluigi Natalia
Chi crede “vede” i segni dei tempi, le conquiste e gli inciampi del cammino dell'uomo, l'azione misteriosa di Dio nella storia. Questo ci dice, soprattutto, la Lumen fidei (la luce della fede), la prima enciclica firmata da Papa Francesco. Questa luce è come il tema e l'ispirazione creativa di una sinfonia che accompagna tutta la vicenda cristiana e arricchisce la storia tout court. Perché L'enciclica, per restare nel paragone musicale, verrà probabilmente ricordata per essere la prima mai scritta “a quattro mani”. Benedetto XVI ne è infatti autore quanto Francesco e forse – a leggerla con attenzione – di più, almeno sul piano quantitativo. Del resto è lo stesso Francesco a dichiararlo e nessuno ignora che Benedetto XVI prima della sua rinuncia al papato fosse arrivato molto avanti nell'estensione dell'enciclica.
A rendere la cosa ancora più evidente ha contribuito la prima uscita pubblica di Ratzinger in Vaticano dopo il suo ritorno da Castelgandolfo, avvenuta il 4 luglio scorso, giorno della presentazione dell'enciclica, che invece reca la data significativa del 29 giugno, solennità dei santi Pietro e Paolo, pilastri fondanti ella Chiesa di Roma. Insieme con Papa Francesco, il predecessore ha partecipato alla benedizione della statua di san Michele Arcangelo davanti al Governatorato della Città del Vaticano. (Significativamente, il Papa nel consacrare il piccolo Stato all'arcangelo, ha avuto parole durissime per i diversi aspetti corruttivi rivelati da cronache anche recenti, pregando affinché «ci difenda dal Maligno e lo getti fuori». Peraltro, san Michele a interventi risolutivi a Roma è abituato: la statua sulla sommità di Castel Sant'Angelo che lo ritrae mentre rinfodera la spada fa riferimento a quando mise fine a un'epidemia di peste). Nello stesso giorno è stato poi annunciato che Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II saranno canonizzati insieme. Si potrebbe arrivare a dire che queste circostanze hanno reso il 4 luglio una sorta di giorno di quattro Papi.
Soprattutto per quanto riguarda l'enciclica, sarebbe però un errore leggere le circostanze su un piano più di curiosità che valoriale. Al di là delle differenze di stile, di sensibilità e di accenti, infatti, Papa Francesco, per molti aspetti un evidente innovatore e, si licet, un rivoluzionario, assume con naturalezza e convinzione il magistero di Benedetto XVI. Perché se differenza c'è tra i due è sul piano pastorale - del programma di governo si direbbe in linguaggio politico – non la si trova certo certo su quello dell'analisi teologica. Francesco si mostra in sintonia con il predecessore, quando scrive che la luce proveniente dalla fede, dalla Rivelazione che Dio fa di sé in Gesù e nel suo Spirito, illumina le profondità della vita nella quale ci fa riconosce i segni dell'iniziativa di Dio. La fede, infatti, sa illuminare «tutto il percorso della strada» , «tutta l’esistenza dell’uomo». Essa «non ci separa dalla realtà, ma ci permette di cogliere il suo significato più profondo, di scoprire quanto Dio ama questo mondo e lo orienta incessantemente verso di sé».
Sono i temi cari al suo predecessore e infatti Francesco scrive che «queste considerazioni sulla fede intendono aggiungersi a quanto Benedetto xvi ha scritto nelle Lettere encicliche sulla carità e sulla speranza. Egli aveva già quasi completato una prima stesura di Lettera enciclica sulla fede. Gliene sono profondamente grato e, nella fraternità di Cristo, assumo il suo prezioso lavoro, aggiungendo al testo alcuni ulteriori contributi».
Sottolineare passaggi che ricordano parole già dette dall’uno e dall’altro potrebbe anche essere un interessante esercizio filologico ed ermeneutico, ma forse è più significativo quanto ha affermato, presentando l'enciclica, il cardinale Marc Ouellet, prefetto della congregazione dei vescovi: «nel testo c'è molto di Benedetto XVI e c'è tutto di Francesco, perché ha assunto il testo nel suo ruolo di testimone della fede».
Per riprendere l'allegoria iniziale, volendo considerare l'enciclica come la conclusione di una sinfonia in tre movimenti – dopo la Deus caritas est e la Spe salvi di Benedetto XVI - ci sarebbe infine da ragionare se un messaggio anch'esso valoriale non emerga persino dall'inversione dell’ordine fissato dalla tradizione, nel quale la fede viene per prima e la carità per ultima. Forse una risposta – oltretutto di sintesi perfetta delle due personalità di Ratzinger e Bergoglio - la offre la stessa Lumen fidei, quando afferma che «amore e verità non si possono separare: senza amore, la verità diventa fredda, impersonale, oppressiva per la vita concreta della persona».
Per Francesco e Benedetto, «la fede non è intransigente». Infatti «il credente non è arrogante; al contrario, la verità lo fa umile, sapendo che, più che possederla noi, è essa che ci abbraccia e ci possiede. Lungi dall’irrigidirci, la sicurezza della fede ci mette in cammino, e rende possibile la testimonianza e il dialogo con tutti».
Toni quasi poetici l'enciclica tocca rilevando che la luce della fede può davvero illuminare l’amore di coppia e la società. «Promettere un amore che sia per sempre, è possibile quando si scopre un disegno più grande dei propri progetti, che ci sostiene e ci permette di donare l’intero futuro alla persona amata». Così come «una verità comune ci fa paura, perché la identifichiamo con l’imposizione intransigente dei totalitarismi. Se però la verità è la verità dell’amore, se è la verità che si schiude nell’incontro personale con l’Altro e con gli altri, allora resta liberata dalla chiusura nel singolo e può fare parte del bene comune». A conferma, con buona pace di tanti cattivi maestri, che la fede non è un fatto privato.
Come sempre, infine, il discrimine per comprendere cosa sia fede in Cristo e sua sequela, speranza di salvezza e testimonianza d'amore, è la vicinanza a chi più è nel bisogno e nella sofferenza. In questo senso, significativamente, l'enciclica cita gli esempi di Francesco d’Assisi che abbraccia il lebbroso e di Teresa di Calcutta china sui poveri.