Ha raggiunto oggi il sacrario di Gisozi, nella capitale rwandese Kigali, la torcia che negli ultimi tre mesi ha attraversato tutto il Paese per ricordare le vittime del genocidio di vent’anni fa, incominciato il 7 aprile 1994. La torcia si chiama Kwibuka (ricordando, in lingua locale). Così come «Ricordare, unire, rinnovare» si legge nel manifesto delle commemorazioni delle vittime di uno dei maggiori orrori della storia, che provocò oltre ottocentomila morti accertati, in stragrande maggioranza tutsi, ma anche hutu moderati, e poi due milioni di profughi, in questo caso quasi tutti della maggioranza hutu uscita sconfitta dalla guerra civile.
Le cerimonie incominciate oggi a Kigali — dove è giunto tra gli altri il Segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon — andranno avanti per cento giorni, quanti furono, vent’anni fa, quelli che videro trucidare centinaia di migliaia di donne e di uomini, di vecchi e di bambini. Ricordare, appunto, ma anche rinnovare e unire un Paese ancora lacerato al suo interno e spesso in contrasto con la comunità internazionale.
Da parte sua, con la presenza a Kigali, Ban Ki-moon ha voluto testimoniare la volontà di non ripetere mai più la sostanziale sottovalutazione mostrata all’epoca su quanto stava accadendo. Significativa, in merito, è stata anche la tappa a sorpresa che il Segretario dell'Onu ha fatto ieri nella Repubblica Centroafricana, dove non ha nascosto i timori per il possibile ripetersi di un’analoga, spaventosa tragedia. «È responsabilità di tutti in quanto leader assicurarsi che non dovremo mai commemorare un tale anniversario nella Repubblica Centroafricana», ha detto Ban Ki- moon alle autorità di transizione di un Paese che da tempo ritiene sull’orlo del baratro, facendo riferimento appunto al Rwanda. «Non ripetete gli errori del passato, non dimenticate di imparare la lezione», ha detto ancora Ban Ki-moon alla presidente ad interim Catherine Samba-Panza e agli altri esponenti di Governo e Parlamento, chiedendo loro di compiere ogni sforzo per avviare un processo politico di riconciliazione e pace civile.
Se in Rwanda la questione fu solo etnica, tra tutsi e hutu, nella Repubblica Centroafricana, come in molte altre crisi di oggi nel mondo, una componente hanno i fondamentalismi pseudoreligiosi. A Bangui, infatti, il Segretario generale dell’Onu insisato sul fatto che musulmani e cristiani sono esposti a pericoli mortali solo per l’appartenenza a una comunità o a un credo. C’è il rischio, ha detto, di un’altra «epurazione etnico-religiosa che, se si guardano i fatti di questi ultimi mesi, sembra già essere una dolorosa e insanguinata realtà». A cominciare le stragi furono lo scorso anni gli ex ribelli della Seleka (alleanza, in lingua locale sango) andati al potere con il colpo di Stato che in marzo aveva rovesciato l'ex presidente François Bozizé. Le melizie Seleka all'origine era formate da poche centinaia di oppositori, ma subito dopo il colpo di Stato furono ingrossate da alcune migliaia di combattenti stranieri, quasi tutti di matrice fondamentalista islamica, giunti soprattutto dal Ciad, che per mesi hanno fatto strage di cristiani in tutto il Paese, soprattutto a colpi di machete, in un'altra tragica analogia con quanto accadde in Rwanda. Successivamente, sono state però le milizie di autodifesa della maggioranza cristiana, chiamate anti-balaka (Balaka significa appunto machete, in sango) a compiere contro la minoranza musulmana gli stessi atroci crimini.
A Kigali, oggi, Ban Ki-moon ha detto che la vergogna dell’Onu per non aver potuto impedire il genocidio di vent'anni fa «nello spazio di una generazione non è stata cancellata». «Avremmo potuto fare di più», ha ripetuto due volte, ricordando che i 2.500 caschi blu furono ritirati dal Rwanda a metà aprile, nel momento in cui ce ne sarebbe stato più bisogno», Il ritiro fu deciso dopo che dieci caschi blu belgi erano stati uccisi nelle prime, convulse ore della strage, seguite avviata dalla guardia presidenziale, formata da hutu, dopo l'uccisione dei presidenti rwandese, Juvénal Habyarimana, e burundese, Cyprien Ntaryamira, nell’abbattimento del loro aereo che stava atterrando all'aeroporto di Kigali.
ln ogni caso, l'Onu non colse immediatamente la spaventosa portata degli avvenimenti in Rweanda, così come un anno dopo, nel luglio del 1995, i caschi blu francesi dell’Onu si dimostrarono impotenti davanti a un altro genocidio, quello bosniaco di Srebrenica.
Eppure, fin dall’inizio, non erano mancati i moniti e gli appelli accorati delle coscienze più vigili, primi fra tutti quelli di Giovanni Paolo ii, che della tragedia rwandese parlò continuamente in quei mesi. Già prima, nel discorso di inizio anno al Corpo diplomatico presso la Santa Sede, il Papa aveva ammonito sui pericoli incombenti sul Rwanda. E al Regina Caeli del 10 aprile, al primo scatenarsi delle violenze, fece «appello a tutti i responsabili, anche della comunità internazionale, perché non desistano dal cercare ogni via che possa porre argine a tanta distruzione e morte».