L'inquietante regurgito dei populismi xenofobi
Il cancro nazionalista
di Pierluigi Natalia
Viviamo una stagione segnata da fenomeni a grandi linee iscrivibili al concetto di nazionalismo e a quello ad esso collegato di populismo. Ne è un esempio il rinnovato protezionismo degli Stati Uniti guidati da Trump, il cui successo, a vedere la composizione dell'elettorato che lo scelse nel 2016, sembrò dovuto al disagio di una classe media americana, in particolare bianca, frustrata e in via di marginalizzazione. Saranno probabilmente le elezioni di medio termine di novembre a dirci se questo zoccolo dell'elettorato di Trump sarà scalfito, nonostante i vantati buoni risultati di macroeconomia e finanza, dalle diffuse proteste popolari, dalle bocciature giudiziarie, dalla vicenda del Russia-gate. Ci sono infatti sempre più circostanziate notizie sul fatto che il voto del 2016 fu adulterato da interventi riconducibili al leader russo Putin, uno che a sua volta ha puntato su nazionalismo e populismo per risalire la china causata a suo tempo dal crollo dell'Unione sovietica.
Nel frattempo, il presidente statunitense continua disinvoltamente, anche liberandosi di ogni figura della sua amministrazione che non approvi supinamente ai suoi disegni, a smantellare sul piano interno i diritti sociali acquisiti, compresi quelli sulla tetule della salute, e su quello internazionale gli accordi siglati dall’amministrazione Obama. Per non parlare dei diritti umani, per esempio con la scelta di separare i bambini migranti dalle famiglie e di chiuderli in gabbia.
Il nazionalismo russo, a sua volta, è tra le cause principali delle crisi militari dell'ultimo decennio in Crimea e in Ucraina, per non parlare di quelle mai risolte in Cecenia e in Ossezia.
Un nazionalismo di tipo proprio, più di risposta a tentativi autonomistici, spesso su basi etniche, si registra da parte del Governo cinese, con forti repressioni interne, accompagnate sul piano internazionale da una proiezione imperialistica di tipo soprattutto economico, con la crescente acquisizione di risorse in Africa e di accordi commerciali in America latina, ma anche militare, come dimostra l'aumento di basi nella cruciale zona del Mar cinese meridionale.
Nell'altro grande subcontinente asiatico, l'India, se da un lato appare meno forte che in passato il nazionalismo basato sull'identità etnica e religiosa dell'hinduismo, con il suo sistema di caste, dall'altro aumentano le tensioni e le violenze originate dal fondamentalismo ad esso ispirato.
Più complessa è la situazione mediorientale, dove anche nei Paesi di tradizionale componente nazionalistica, si pensi a Turchia, Iran e Iraq, ad essa si è sovrapposta quella identitaria islamica. Con punte di fondamentalismo, anche a livello governativo, mai raggiunte neppure all'epoca del panarabismo seguito alla seconda guerra mondiale, alimentato anche dal rifiuto della nascita dello Stato d'Israele, considerato elemento estraneo ed espressione dello strapotere occidentale.
Anche in America latina si registrano fenomeni di chiusura – e persino nostalgie dei nazionalismi del passato sfociati in dittature militari – dopo che negli ultimi anni la crisi economica causata da una finanza predatrice e irresponsabile ha in gran parte vanificato le grandi conquiste sociali ottenute nell'ultimo ventennio soprattutto nel Brasile, il maggior Paese dell'area, ma anche in diversi altri, dal Paraguay al Venezuela, dall'Argentina al Guatemala, dal Cile alla Colombia.
In Africa, la questione va ricondotta più al fattore etnico, quando non tribale, che al nazionalismo propriamente detto. Del resto, con alcune eccezioni, prime fra tutte Egitto ed Etiopia, in Africa il concetto di nazione è decisamente vago e gli stessi confini sono un'astrazione geografica figlia del colonialismo.
Poi c'è l'Europa, dove i nazionalismi sono nati e più che altrove si sono accompagnati ai suoi figli naturali, il razzismo, la xenofobia, la violenza, la guerra. Nell'Europa che proprio per risorgere e rinnegare quegli orrori si è costruita sulla base dei diritti umani e dello Stato sociale, si vive oggi una stagione di regresso valoriale evidente. Trovano infatti consensi sempre maggiori quelle forze che al nazionalismo si rifanno, magari nella sua declinazione di sovranismo oggi tanto di moda. Sollecitati dalle nuove incertezze e dalle paure diffuse, hanno trovato nuova linfa vitale e il loro lessico di retorica violenza si va imponendo sempre di più, come un cancro che attacca le cellule sane della società.
Fenomeni analoghi si registrano praticamente da sempre nella storia umana. Ma qualche distinzione è necessaria, se si vuole sgombrare il campo da interpretazioni che appartengono più all'ideologia che all'analisi sociopolitica. Soprattutto se si rifiuta l'espressione per meri slogan, in una scelta purtroppo sempre più minoritaria in un'epoca come la nostra che confonde, grazie alla presenza invasiva dei cosiddetti social media, la propaganda con l'informazione. Se identità tribale ed etnica appartengono infatti all'intera esperienza umana, di nazionalismo propriamente detto si deve parlare più propriamente riguardo agli ultimi tre o quattro secoli.
E se ne deve parlare, con cognizione di causa e onestà intellettuale, come di una delle più evidenti e pericolose cause di conflitto e di regresso. Figli del nazionalismo sono i due conflitti mondiali e in gran parte il terzo, quello che Papa Francesco chiama guerra mondiale a pezzi. Nell'ultimo trentennio, alla fine del bipolarismo con l'implosione dell'Unione Sovietica, il regurgito dei nazionalismi nell'ex Jugoslavia ha riportato la guerra in Europa dopo quasi mezzo secolo di pace e di sviluppo, ad ovest soprattutto, ma anche a est, nonostante sistemi economici collettivisti di fatto ingessati. A etnicismo e tribalismo, invece, va ascritto l'altro caso di spaventosa ferocia registrato negli anni Novanta del secolo scorso, il genocidio in Rwanda.
In quegli anni, diversi osservatori, compreso chi scrive, indicarono l'esplosione dei nazionalismi come la causa principale di una conflittualità del futuro, insieme alla lotta per il controllo delle fonti strategiche, ammonendo che solo una gestione corretta dei fenomeni di globalizzazione avrebbe consentito che quei regressi di civiltà restassero solo una reazione difensiva residuale e non si protraessero.
Purtroppo, quel monito è rimasto a livello di speranza. Una globalizzazione consegnata alla proprietà e alla gestione esclusiva della finanza, una mondializzazione che non ha globalizzato, ma anzi ha attaccato sistematicamente i diritti umani, ha favorito il rafforzarsi di quei fenomeni. La crisi economica, o meglio finanziaria, in cui l'Occidente e più in generale il mondo sono immersi da un decennio, ha arricchito di più chi ricco era già, ha allargato la base di povertà assoluta, ha respinto verso il basso la classe media in ogni nazione, ha vanificato decenni di progressi dello Stato sociale. La risposta che hanno avuto le vittime non è stata un rilancio politico di solidarietà e cooperazione, ma una capillare diffusione dello schema caro a ogni ideologia nazionalista: metti loro paura e indica un nemico esterno che faccia scordare gli errori interni, come accade oggi, per esempio, in Italia e non solo, con i migranti. Uno schema che bombarda la gente di messaggi distorcenti la realtà.
Occorre precisare che nazionalismo e nazione civile non solo non sono la stessa cosa, ma sono incompatibili, soprattutto riguardo ai diritti umani. Il primo, in sintesi, sostiene che le differenze tra popoli sono oggettive e che ciascuno nasce in una comunità di destino alla quale non può sottrarsi, mentre chi non vi appartiene non può trovarvi tutela degli stessi diritti fondamentali. Al contrario, le nazioni civili sono quelle in cui ci si riconosce come società in cui tutti coloro che ne rispettano i principi fondanti devono avere gli stessi diritti.
Il passo ulteriore, mai pienamente realizzato, è la creazione di una comunità mondiale basata su quel riconoscimento e su quelle tutele. E non è un caso se oggi ad essere sotto attacco siano proprio le realtà che più di altre su questo primato dell'essere umano in quanto tale sono state costituite, a partire dall'Onu e, almeno nell'ispirazione, dall'Unione Europea. E per inciso, sotto attacco, in diversa misura, è anche la Chiesa cattolica, che ovviamente ha un Fondatore diverso, ma è proprio per questo al servizio dell'universalità della famiglia umana. Un servizio, come ribadisce in ogni occasione Papa Francesco, che ha come destinatari principali i più poveri.