Come era nelle previsioni, lo spostamento dell'ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, lo scorso 14 maggio, ha aggiunto benzina sul fuoco mai sopito del conflitto israelo-palestinese e ha ulteriormente accresciuto l'instabilità della cruciale area del vicino Oriente. L'inaugurazione della nuova ambasciata, annunciata da Donald Trump lo scorso dicembre tra forti proteste internazionali, è stata preceduta e accompagnata da sanguinose violente, con ripercussioni pesanti ed evidenti sul principale scacchiere di quella guerra mondiale parcellizzata, come dice Papa Francesco, che proprio in quell'area resta più cruenta e dall'incerta prospettiva di soluzione.
Si sono confermati, dunque, i timori sulla pericolosità dell'iniziativa espressi dal Papa alla vigilia dell'annuncio di Trump. Francesco all'udienza generale del 6 dicembre aveva rivolto “un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo, in conformità con le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite” e aveva ricordato che “Gerusalemme è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i luoghi santi delle rispettive religioni”. Da qui la necessità che “tale identità sia preservata e rafforzata a beneficio della Terra santa, del Medio Oriente e del mondo intero e che prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti”.
Ancora una volta, comunque, né gli accorati appelli alla pace, né prudenza e buon senso politici hanno prevalso e Trump ha tirato dritto, anzi ha tirato storto. Già il 18 dicembre gli Stati Uniti avevano bloccato con il veto una bozza di risoluzione del Consiglio di Sicurezza Onu che condannava i nuovi sviluppi. Il testo, elaborato dall’Egitto, senza menzionare direttamente gli Stati Uniti o Trump, esprimeva “il profondo rammarico per le recenti decisioni riguardanti lo status di Gerusalemme”, affermava che le mosse per alterare tale status “non hanno alcun effetto giuridico, sono nulle e devono essere annullate in conformità con le pertinenti risoluzioni del Consiglio di Sicurezza Onu” e invitava tutti gli Stati membri dell'Onu a non riconoscere “nessuna azione o misura contraria a tali risoluzioni”. Il testo aveva ottenuto l'appoggio di tutti gli altri quattordici membri del Consiglio di sicurezza, compresi quindi quelli europei, spingendo l'ambasciatrice statunitense all'Onu, Nikki Haley, a parlare di “un insulto e un affronto che non dimenticheremo”.
Il che non annuncia certo la possibilità sia pure remota che trovi consensi il già improbabile schema per un nuovo piano di pace messo a punto dall'Amministrazione statunitense insieme con l'alleata Arabia Saudita, e più specificamente da Jared Kushner, il marito di Ivanka Trump, la figlia del presidente, e da Mohammed bin Salman, ormai ufficializzato erede al trono di un Paese, unico caso al mondo, che prende il nome da una famiglia, la sua, appunto gli al-Saud, e ne costituisce una sorta di proprietà privata.
Tra l'altro, l'inaugurazione dell’ambasciata si è tenuta in concomitanza con le celebrazioni per il 70° anniversario della nascita dello Stato di Israele, ricorrenza che i palestinesi commemorano ogni anno come la Nakba (la catastrofe), scelta che ha suggerito il termine “provocazione” anche ad alcuni commentatori non certo pregiudizialmente antiamericani o antisraeliani. E così, mentre il Dipartimento di Stato americano comunicava presenze alla cerimonia, a partire proprio da figlia e genero di Trump, e particolari sulle entusiastiche dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, che era intervenuto, e dello stesso Trump in un videomessaggio, i siti d'informazione aggiornavano via via il numero dei morti - diverse decine, compresa una bambina di otto mesi soffocata dai gas lacrimogeni - e dei feriti, migliaia, soprattutto al confine fra Israele e Striscia di Gaza, di fatto controllata da Hamas.
Due giorni dopo, il 16 maggio, l’esercito israeliano comunicava di aver attaccato con proiettili di artiglieria alcune postazioni delle brigate Ezzedine al-Qassam, l’ala armata di Hamas, nel nord della striscia di Gaza, dopo che i miliziani avevano sparato alcuni colpi di arma da fuoco contro le sue postazioni, senza fare vittime. Già alla vigilia dell'inaugurazione dell'ambasciata, un attacco missilistico era stato lanciato da Israele sulla striscia di Gaza, poche ore dopo la decisione del ministro della Difesa Avigdor Lieberman di chiudere la zona di Kerem Shalom, il valico di passaggio commerciale al confine tra Gaza, Israele e Egitto, dopo un incendio causato da manifestanti palestinesi.
Sempre il 16 maggio, riferendo al Consiglio di sicurezza, l’inviato dell’Onu per il Medio Oriente, Nickolay Mladenov, affermava che “non ci sono giustificazioni” per quanto accaduto a Gaza, sollecitando un'indagine internazionale. Peraltro, come di prassi in simili casi, Mladenov aveva caricato di responsabilità entrambe le parti. Cioè, Israele “deve proteggere le sue frontiere dalle infiltrazioni e dal terrorismo”, ma deve farlo in modo “proporzionato”, ma Hamas “non deve usare le proteste per cercare di posizionare bombe sulla barriera di sicurezza e provocare, i suoi miliziani non devono nascondersi tra i manifestanti e mettere a rischio la vita dei civili”. Anche in questo caso, comunque, gli Stati Uniti avevano annunciato che avrebbero bloccato la risoluzione per "un'inchiesta indipendente e trasparente su queste azioni per garantire le responsabilità".
Un'analoga risoluzione, presentata dal Pakistan a nome dell’Organizzazione per la cooperazione islamica, aveva invece approvato a Ginevra il Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite – che ovviamente conta molto meno del Consiglio di sicurezza - decidendo l’invio di alcuni investigatori internazionali nella Striscia. La risoluzione aveva ottenuto 29 voti a favore, 2 contrari (Stati Uniti e Australia) e 14 astensioni. Gli europei rappresentati nel Consiglio, come al solito, erano andati in ordine sparso: Gran Bretagna, Germania e Ungheria si erano astenute, mentre Spagna, Belgio e Slovenia avevano votato a favore (e Israele ne aveva subito convocato gli ambasciatori a Tel Aviv per protestare). Intanto, sempre per protestare, diversi Paesi, a partire dalla Turchia, richiamavano a loro volta gli ambasciatori a Tel Aviv.
Scontri diplomatici a parte, la questione cruciale è quella posta da Abu Mazen, il presidente dell’Autorità nazionale palestinese, secondo il quale “gli Stati Uniti non possono più proporsi come mediatori del conflitto israelo-palestinese”. Se è vero – e purtroppo vero appare, almeno durante la presidenza di Trump – significa di fatto mettere in frigorifero, se non sotto una pietra tombale definitiva, la prospettiva della soluzione dei due Stati sulla quale la comunità internazionale punta da decenni, cioè il processo di pace che proprio gli Stati Uniti, fin dalla presidenza di Carter, quarant'anni fa, hanno voluto, costruito e, almeno in alcuni periodi, garantito.
È vero che ci sono stati cocenti fallimenti anche di presidenti statunitensi ben più coscienti delle complessità mondiali e ben più decisi di quanto non appaia Trump a perseguire una politica di allargamento del consenso internazionale all'architettura del processo di pace, soprattutto dei Paesi arabi. Ma stavolta, purtroppo, più che di arresto di tale processo, bisogna parlare di passi indietro. La politica di Trump ha consentito nell'ultimo anno a Netanyahu di incassare diversi successi parziali, per esempio un nuovo e ampio spazio di manovra, anche militare, in Siria, e un insperato sostegno alla sua rigida posizione contro Teheran grazie al ritiro statunitense dall'accordo sul nucleare iraniano. Ma la vicenda dell'ambasciata ha già trasformato il bagno di sangue, non ancora interrotto al momento in cui questo articolo viene scritto, in un abisso politico. Dal piano di Jared Kushner e Mohammed bin Salman hanno già preso le distanze diversi Paesi arabi alleati degli Stati Uniti. Per esempio era stato il Kuwait a chiedere la riunione del Consiglio di sicurezza per condannare le violenze nei Territori palestinese. E già prima la stessa Arabia Saudita si era unita alle condanne del trasferimento dell'ambasciata. Per non parlare delle divergenze sempre più profonde, praticamente in ogni settore dei rapporti politici, diplomatici e commerciali, tra Stati Uniti e alleati europei.