«Oggi nella comunicazione ha un peso sempre maggiore il mondo dell’immagine con lo sviluppo di sempre nuove tecnologie; ma se da una parte tutto ciò comporta indubbi aspetti positivi, dall’altra l’immagine può anche diventare indipendente dal reale, può dare vita ad un mondo virtuale, con varie conseguenze, la prima delle quali è il rischio dell’indifferenza nei confronti del vero». Sono passati dieci anni da quando il Papa oggi emerito, Benedetto XVI, aprì con queste parole un congresso sulla stampa cattolica promosso dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. E sembrano passati invano, se è vero che non i fatti, ma un artificioso sensazionalismo prevalgono oggi ancora di più nell'informazione e che anche molti professionisti in questo campo sembrano abdicare dal loro ruolo, deontologico prima ancora che sociale, di persone che si documentano per documentare.
A voler "fare le pulci" a come televisioni, web e diversi giornali stanno raccontando ,la pandemia una tale deriva sembra anzi essersi accentuata. A imporsi, a seconda di chi esercita il controllo su tali strumenti, sono sono da un lato gli slogan aderenti alle indicazioni governative, da "io resto a casa" ad "andrà tutto bene" con relative esposizioni di cartelli circondati da bandiere su balconi e finestre-. Dall'altro le polemiche interessate e strumentali di tanta propaganda politica che sfrutta non tanto i lutti e i danni reali, quanto il disagio provocato dall'epidemia , per non parlare delle "fake news", le pseudo notizie false che alimentano ogni genere di spazzatura sul web e purtroppo anche nell'etere e su qualche pagina di giornale. Tra l'altro, in questo tempo dominato da un allarme reale, questo significa mettere l'opinione pubblica nelle condizioni di non poter sentire i campanelli d'allarme sul quel pericolo corollario rappresentato dalla disinformazione.
Sarebbe ingenuo ignorare che in ogni mezzo di comunicazione lo sforzo di completezza – anche relativa - può essere limitato da considerazioni di opportunità o di appartenenza, e anche di interesse economico. Tuttavia, un confine va tracciato ed è quello tra quanti ricercano la verità e quanti non se ne curano, se non come sottostrato di un prodotto da rendere attraente. Per quanti vivono da cattolici il mestiere del giornalista quello di Benedetto XVI fu ed è ancora un monito severo. Non si tratta, ovviamente, di demonizzare la moderna comunicazione, ma di prenderle le misure. Con i mezzi che si hanno a disposizione e persino senza averne affatto, almeno di materiali, come accade a Sosta e Ripresa.
C'è una vecchia espressione usata spesso per definire il compito della stampa: «cane da guardia del potere». Ma è un'espressione ormai equivoca. Dovrebbe significare fare la guardia alla verità e alla libertà del cittadino di essere informato, di abbaiare ad ogni tentativo di effrazione delle coscienze da parte appunto di ogni potere. Di fatto, oggi troppo spesso significa un abbaiare scomposto quando il potere fischia. Perchè è il potere, politico ed economico, il padrone delle mute dei cani che abbaiano a comando, spesso con riflesso pavloniano.
Soprattutto di fronte a un simile contesto, la stampa cattolica è sollecitata a esprimere in modo nuovo le proprie potenzialità — magari colmando i ritardi di presenza nelle nuove tecnologie — e a mettersi in grado di svolgere quotidianamente una missione irrinunciabile. Certo sottrarsi a questa deriva è difficoltoso. Le copie vendute, il numero di radioascoltatori o telespettatori raggiunti, i contatti ottenuti su internet sembrano essere diventati l'unico parametro per giudicare della fortuna di un progetto editoriale. Peggio: il controllo della stampa si fa controllo politico. Peggio ancora: una certa stampa si fa grimaldello per forzare ogni residua porta di decoro e di dignità.
Nell'opporsi a tutto questo la stampa cattolica — quella che una volta si definiva la buona stampa — sconta degli svantaggi di partenza evidenti. I motivi sono noti a tutti. C'è la concorrenza dei grandi editori con pochi o nulli scrupoli. Ci sono i monopoli della pubblicità. C'è, soprattutto, la disabitudine ormai generale nelle nostre società moderne a distinguere le parole per significato e non per decibal, le riflessioni dagli strilli. E verrebbe da aggiungere che in troppi contesti ecclesiali considerazioni economiche fanno accarezzare la strana idea che si possa fare informazione senza i giornalisti. Oltretutto dimenticando - per seguire lo schema di Marshall MacLuhan su "media" e "messaggio", noto a chiunque abbia frequentazione con questa materia - che i giornalisti cattolici dispongono di un elemento facilitante che dà loro sostegno e speranza, dal momento che fede cristiana e comunicazione hanno in comume una struttura fondamentale: il fatto che il “mezzo“ e il “messaggio“ coincidano. Il Signore è, infatti allo stesso tempo messaggio di salvezza e mezzo attraverso il quale la salvezza si realizza.
Ciò detto, va rimarcato che la verità dell'Incarcarnazione interpella ogni differente contesto e che così come occorre evangelizzare le culture occorre trovare in ciascuna epoca chiavi interpretative specifiche per rendere i comportamenti coerenti e la testimonianza efficace. Il giornalista non è un predicatore, ma appunto un testimone. Per il giornalista, cioè, la verità non può essere una sorta di piatto preconfezionato, ma una fusione tra fatti, motivi e reazioni, che va indagata e documentata continuamente.
A difesa della stampa cattolica viene spesso chiamato un principio di prudenza, una misura di moderazione. Indipendentemente dal fatto che non ci sono posizioni più radicali di quelle cattoliche su questioni cruciali della convivenza umana – si pensi al tema della pace o a quello della giustizia sociale, alla denuncia dell’oppressione dei poveri o alla difesa della vita dal concepimento alla morte naturale – moderazione non è ignavia, prudenza non è paura o compromesso. Sosta e Ripresa, per il poco che conta, tende al radicalismo. Quello cattolico.