Il principio di sovranità popolare espressa attraverso il voto non ha certo alternative migliori, ma sembra un dato di fatto che elezioni e referendum più che offrire soluzioni ai problemi di diversi Paesi siano ormai certificazioni di decisioni prese altrove. Vale nei sistemi elettorali più orientati sulla cosiddetta governabilità che sulla rappresentanza, e vale per quegli Stati dove il potere appare più campo di competizione per gruppi d'interesse che strumento di servizio della cosa pubblica. Vale soprattutto dove l'alleanza pervasiva tra potere economico e potere di comunicazione si traduce in populismo generalizzato. A conferma che la democrazia è un esercizio sociale difficile.
In questa logica è da tempo entrata anche l'Italia. Stiamo parlando di una democrazia parlamentare, cioè di un sistema istituzionale per il quale è il Parlamento, espressione dell'elettorato, a legittimare il Governo. Da un ventennio, però, i sistemi di voto, quale più quale meno, sono di tipo maggioritario, volti appunto a decidere il Governo. Salvo non dirlo espressamente, dato che servirebbero riforme costituzionali. Così abbiamo avuto un po' di Governi Berlusconi e di Governi Prodi, comunque indicati dagli elettori, un Governo D'Alema e un Governo Amato (nati da accordi parlamentari) e da quattro anni abbiamo Governi che nessun italiano ha mai scelto, quelli di Monti, di Letta e di Renzi. Così come nessun italiano ha più potuto scegliere – e non potrà farlo con il cosiddetto Italicum – chi mandare in Parlamento.
Si chiama autoreferenzialità delle classi cosiddette dirigenti, ma in realtà digerenti, anzi ruminanti privilegi e mazzette.
E anche in questo gioca un ruolo determinante la comunicazione. È vero che in Italia – e in genere in Occidente – è un po' difficile fare giochetti strani con i voti, ma è anche vero che a furia di raccontare balle la gente finisce per crederci. Tipo al presunto 40% dei consensi ottenuto da Renzi alle europee, dato che avevano votato la metà degli italiani. Insomma, con un quinto dei voti in un'elezione non legislativa per l'Italia, uno che in Parlamento non ha mai eletto nessuno si è autolegittimato a cambiare la Costituzione. Bontà sua, sembra che sia disposto a farci dire la nostra con un referendum (finché non la cambiano, del resto, la costituzione lo prevede)
In Africa sono più bravi. Se ne è avuta l'ultima dimostrazione nella Repubblica del Congo (quello di Brazzaville, l'ex colonia francese), dove il Governo del presidente Denis Sassou Nguesso ha cambiato la Costituzione per consentirgli di ricandidarsi l'anno prossimo e si è fatto approvare le modifiche con un referendum, tenuto domenica scorsa e che sembra essere stato tutt'altro che una decisione affidata al popolo. Sull'esito, infatti, Governo e opposizione hanno fornito versioni diametralmente opposte.
Il ministro dell’interno, Raymond Mboulou ha comunicato che l’affluenza alle urne è stata del 72,44 per cento e che il 92,96 per cento dei votanti si sono espressi a favore delle modifiche costituzionali. Le dichiarazioni di Mboulou contrastano nettamente con quanto riferito da praticamente tutte le fonti citate dalle agenzie di stampa internazionali, e cioè che l’affluenza ai seggi era stata scarsa. I rappresentanti dell’opposizione sostengono anzi che la partecipazione al voto è stata inferiore al dieci per cento e rivendicano il successo della propria campagna per il boicottaggio della consultazione. «L’invito è stato ascoltato», ha commentato Guy Brice Parfait Kolelas, ex ministro passato all’opposizione di Sassou Nguesso, dalla sua residenza di Brazzaville, dove è stato messo agli arresti domiciliari.
Da parte sua, prima della comunicazione dei risultati, lo stesso presidente aveva rilasciato commenti giudicati da molti osservatori un’implicita ammissione del successo almeno relativo del boicottaggio. «Sarebbe stato meglio se l’opposizione non avesse chiesto ai suoi sostenitori di non votare. Ma sono congolesi e bisogna fare i conti anche con loro», aveva detto Sassou Nguesso. Sul merito delle modifiche costituzionali, soprattutto quella più contestata, il presidente aveva detto che una sua ricandidatura «non è all’ordine del giorno».
Tuttavia, è proprio questo il punto che continua ad alimentare tensioni, come in altre analoghe vicende africane, dove ci sono stati tentativi più o meno riusciti di modificare le Carte costituzionali per mantenere dei leader al potere. In questo caso, la modifica non riguarda il limite dei mandati presidenziali, ma quello dell’età massima consentita per candidarsi, ora fissata a settant’anni. Sassou Nguesso, al potere per 31 degli ultimi 36 anni, ne ha 72.presidente. Scommettiamo che l'anno prossimo si ricandida e che prima del voto un po' di oppositori finiscono in galera, senon peggio?
Del referendum a Brezzaville la stampa occidentale ha parlato poco o niente. Del resto domenica scorsa si è votato in un sacco di posti, in Europa, Africa, America e Asia. Due le situazioni che più hanno concentrato l'attenzione dei commentatori, quella polacca e quella argentina. In Polonia ha vinto la destra xenofoba ed euroscettica, il che implica qualche problema per l'Unione eurpea sulla questione di profughi e migranti, ma in realtà non costituisce una sorpresa.
Invece è stata tale la consultazione in Argentina. Per la prima volta, infatti, il presidente argentino sarà scelto al ballottaggio, il 22 novembre. Sovvertendo tutti i pronostici, Daniel Scioli, candidato del Frente para la victoria - la formazione che ha governato il Paese negli ultimi dodici anni, prima con Nestor Kirchner e poi con sua moglie Cristina Fernández de Kirchner e che ha dato vita a quella variazione del peronismo chiamata appunto kirchnerismo, è arrivato testa a testa al primo turno con il liberista Mauricio Macri della coalizione Cambiemos, di centro destra.
Pur essendo giunto leggermente dietro al rivale, il vincitore del primo turno appare proprio Macri, il cui risultato ha smentito tutti i pronostici della vigilia. Ma ora per lui come per Scioli si tratta di trovare nuove alleanze e la campagna elettorale per il ballottaggio si annuncia intensa. La principale sfida per entrambi i candidati sarà quella di ottenere i voti andati domenica a Sergio Massa, peronista dissidente “da sinistra”, che ha raccolto circa un quinto dei delle preferenze. Secondo alcuni osservatori internazionali, è difficile che questo tipo di elettorato, per quanto critico con il kirchnerismo, possa appoggiare il candidato Macri. Ma non si può mai dire.