Chiunque, come chi scrive, abbia nella sua esperienza l'andare per mare, sa che senza tracciare una rotta si va solo alla deriva. Vale anche nella vita, individuale, sociale ed ecclesiale. E se in mare può essere anche bello, talora, veleggiare senza una meta, nella vita in generale la questione cambia. Ci sono parole che indicano rotte e parole che indicano derive. Una di queste è periferia, ovviamente non intesa nel mero senso topografico, centrale nel magistero di Papa Francesco che invita a cercare un punto di vista diversa diverso, possibili rotte per un diverso futuro, ma al tempo stesso suggerisce qualche riflessione sulla deriva sociale che all'apparenza caratterizza il nostro tempo.
Diciamo che in un'epoca di globalizzazione falsata da uno strapotere della finanza scollegato dall'economia reale e dalla giustizia sociale, è il concetto stesso di periferia a dover essere rivisto. E con esso il concetto di democrazia. Il “centro” che si contrappone alle periferie sociali non è oggi rappresentato dalle capitali, dai palazzi della politica, dalle ideologie vincenti. Il centro reale del potere è staccato dai comportamenti umani, lodevoli o perversi che siano. Sta in transazioni finanziarie gigantesche regolate in gran parte da algoritmi matematici. Paradossalmente, finisce quindi per risultare periferica la quasi totalità delle esperienze umane. Se mille persone controllano oltre la metà della ricchezza del mondo – statistica abbondantemente documentata da tutti i rapporti internazionali – a essere esclusa dalla costruzione del futuro è in pratica la totalità del genere umano. Ovviamente ci sono le eccezioni, ma in tutto il mondo, dal Sud devastato ai nostri Paesi tuttora opulenti, l'ascensore sociale – il vero frutto della storia delle democrazie – è bloccato: i poveri restano tali o lo diventano di più, la classe media viene ricacciata indietro, i giovani si avviano a un futuro molto più difficile del presente dei loro padri.
Nessuno può ragionevolmente pansare che le libertà, politiche ed economiche, possano trovare un'effettiva tutela senza rappresentanza, senza le strutture dei sistemi parlamentari. Ma la democrazia è fatta di contrappesi, non solo di deleghe attraverso il voto. E a far vacillare una democrazia basta ormai la pressione di una crisi economica. Il vero nemico dei sistemi parlamentari è il deficit di partecipazione, la progressiva irrelevanza delle strutture intermedie tra cittadino e Stato. Finché c'è benessere abbastanza diffuso, c'è una forza d'inerzia del sistema, ma basta una crisi di risorse a far esplodere le tensioni. La democrazia parlamentare vive di mediazioni, ma i suoi benefici – le conquiste di civiltà dello Stato sociale – s'incrinano quando la qualità della vita peggiora, la classe di governo colleziona fallimenti ed episodi di corruzione, la burocrazia è opprimente, la prospettiva del proprio futuro personale si fa inquietante.
E in questo vacillamento che da anni priva di senso soprattutto l'Occidente, trovano spazio classi direnti inadeguate, senza i contrappesi e la vigilanza di una vera stampa libera, con l'informazione appiattita sulla mercificazione di tutto, compresi gli stati d'animo. In un gioco perverso al quale internet ha dato un nutrimento impensabile fino a un paio di decenni fa, a quanti perdono diritti, speranze, tutele sociali viene lasciata solo l'indignazione, un'indignazione sterile che si appaga di potersi esprimere in una isterica bulimia di consumo di se stessi sui “social”. E allora si perde il senso stesso del principio democratico, al punto che l'idea del “leader forte” o il vociare feroce di forze politiche che indicano solo nemici – a partire dallo straniero, dal diverso – che puntano su protezionismo, chiusura e discriminazione, lungi dall'essere riconosciute come minaccia, danno rassicurazione e identificazione al risentimento.