Le vicende delle ultime settimane confermano, purtroppo, come la tanto sbandierata lotta al terrorismo invocata dai Governi occidentali (e non solo) per legittimare gli interventi armati, sia per così dire a geografia variabile, o meglio a geopolitica variabile. Mentre la crisi in atto in Iraq e in Siria resta prioritaria nell'attenzione internazionale, vengono sostanzialmente ignorati gli ammonimenti a non cadere in una pericolosa e falsa semplificazione di considerare quanto sta accadendo appunto una sfida del terrorismo o, peggio, una guerra lanciata dall'islam contro il cristianesimo. In questo senso è tornato a esprimersi, in un'intervista rilasciata domenica 24 agosto al quotidiano La Stampa, il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano. Il porporato, citando rapporti del nunzio in Siria, ha sottolineato come tanti musulmani di quelle aree siano fortemente solidali con i cristiani e le altre minoranze e rifiutino i metodi «brutali e inumani» delle milizie islamiste, più volte condannati da Papa Francesco.
Come noto, questi ha insistito sulla necessità di un coinvolgimento dell'intera comunità internazionale nell'impegno a fermare i miliziani dello Stato isòlamico (Is) che l’Alto commissario dell’Onu per i diritti umani, Navathen Pillay, ha accusato di compiere «una pulizia etnica e religiosa». Ma più ancora, il Papa ha invitato a fermate quella che ha definito una terza guerra guerra mondiale, anche se “spezzettata”. Il Papa, peraltro, ha chiaramente aggiunto che occorre trovare modi diversi dai bombardamenti. In quest'ottica, il cardinale Parolin ha espresso la speranza che anche da parte del mondo musulmano «si sappia dire una parola in questo senso e quindi distinguere tra ciò che si può fare e ciò che non si può fare».
Al momento, però, la risposta è solo quella dei cacciabombardieri, oltretutto appunto a geopolitica variabile. Le milizie dell'Is - in fase di difesa in Iraq, dove l'appoggio dell'aviazione statunitense favorisce la controffensiva curda - hanno invece fatto segnare un successo strategico in Siria, con la conquista, dopo una settimana di combattimenti, della base aerea militare di Tabqa, ultimo bastione delle forze governative nella provincia di Ar-Raqqah. Secondo l'Osservatorio siriano per i diritti umani (Ondus), l'organizzazione con sede a Londra espressione dell'opposizione in esilio al presidente Bashar Al Assad, tra i miliziani islamisti ci sarebbero stati almeno 346 morti, a fronte dei 170 caduti tra le forze governativa. Su tali dati non è possibile avere conferme indipendenti, ma le fonti uffiali siriane hanno confermato il ripiegamento dalla base di Tabqa, pur non facendo alcun riferimento alle perdite subite. Sempre l'Ondus ricorda comunque che con la conquista della base aerea l'Is avrebbe ottenuto un immenso bottino. Tabqa era infatti uno dei maggiori arsenali di armi pesanti siriane - non solo aerei ed elicotteri da guerra, ma anche carri armati, cannoni e munizioni – e non è chiaro se le forze in ritirata siano state in grado di portarle con sé o di distruggerle.
Sempre in Siria, intanto, è stato rilasciato il giornalista statunitense Peter Theo Curtis, sequestrato nell'ottobre del 2012 ad Antakya, fa nel sud della Turchia, e poi trasferito in territorio siriano. Il giornalista è stato preso in consegna dai caschi blu dell'Onu nel villaggio di Al Rafid, nelle alture del Golan. In un comunicato, l'Onu si è limitata a rendere noto di aver favorito le operazioni di rilascio. Secondo fonti citate anonimamente dall'emittente Al Jazeera, la liberazione dell'ostaggio sarebbe avvenuta grazie a una non meglio precisata mediazione condotta dal Qatar, cioè da uno di quei Paesi sospettati – per usare un eufemismo – di finanziare i gruppi islamisti. La notizia è arrivata cinque giorni dopo la diffusione del feroce video della decapitazione in Iraq del giornalista statunitense James Foley, da parte di un miliziano dell'Is del quale sembra accertata la nazionalità britannica. Curtis era invece prigioniero del Fronte Al Nusra, anc'esso sunnita come l'Is, ma già più volte entrato in conflitto con quest'ultimo nei tre anni e mezzo del conflitto siriano.
Proprio la tragica morte di Foley ha riproposto interrogativi sull'opportunità di moltiplicare su internet la rappresentazione dell'orrore, se non altro perché i diversi gruppi terrostici hanno sempre dimostrato di puntare proprio sulla comunicazione delle loro posizioni, per quanto feroci e forsennate. Se non altro, perché – ad essere sinceri – più che le reazioni di universale orrore del quale la stampa è usa parlare in questi casi, a prevalere sembrano essere da un lato la morbosità e dall'altro la banalizzazione del male.
All’uso di internet per diffondere le immagini di ferocia e terrore ha incominciato a ricorrere anche Boko Haram, il gruppo nigeriano di matrice fondamentalista islamica responsabile da quattro anni a questa parte dell’uccisione di migliaia di persone, in massima parte civili, in attacchi armati e attentati terroristici.
Mutuando linguaggi e sistemi già sperimentati da altri gruppi islamisti in aree diverse del mondo, Boko Haram ha messo in rete un video girato dopo la conquista di Gwoza, nello Stato nordorientale del Borno, considerato la sua principale roccaforte, che si conclude con la brutale esecuzione sommaria di una ventina di persone. Nel video, che dura 52 minuti, il leader dell’organizzazione, Abubakar Muhammad Shekau, annuncia la costituzione di un califfato nell’area. «Noi non ce ne andremo da questa città. Noi siamo venuti qui per rimanerci», ha detto il capo di Boko Haram, apparso come già in precedenti filmati in tenuta militare e con un mitra in spalla affiancato da cinque uomini armati e mascherati e con tre fuoristrada alle spalle. L’esercito nigeriano ha diffuso ieri un comunicato nel quale ha definito senza senso il proclama di Boko Haram, affermando che la sovranità e l’integrità territoriale della Nigeria sono intatte. Tuttavia, già dopo la caduta di Gwoza, i vescovi nigeriani avevano denunciato il cambiamento di strategia del gruppo islamista che sembra approfittare dell’inerzia dell’esercito e del Governo federale del presidente Goodluck Jonathan, per controllare spazi sempre più vasti del territorio nigeriano.
Ora giunge la rivendicazione appunto di un califfato, sebbene non vengano ripetuti gli annunci di vicinanza a quanto sta accadendo in Iraq. In un video del 13 luglio, Shekau aveva inneggiato ad Abubakr Al Baghdadi, il leader dello Stato islamico (Is), il gruppo armato attivo in Iraq e in Siria, mentre nel filmato diffuso ieri non fa alcun cenno al califfato mediorientale.