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Con le parziali intese tra Khartoum e Juba

Con le parziali intese tra Khartoum e Juba - Pierluigi Natalia

Un po’

  

di respiro
 

per i sudanesi

  

29 settembre 2012

di Pierluigi Natalia
Le popolazioni sudanesi, nel nord e nel sud, stremate da un conflitto che ciclicamente si riaccende, possono sperare  un po’ di respiro grazie alle intese, seppure parziali, raggiunte dai Governi di   Khartoum e di Juba nel negoziato concluso questa settimana ad Addis Abeba. Nonostante alcuni cruciali nodi non sciolti,  i mediatori dell’Unione africana hanno preferito chiudere  la trattativa, una volta ottenuti accordi che   consentiranno di riprendere la produzione petrolifera, risolvendo  un problema cruciale per i due Paesi e,  per inciso, che  vanno incontro agli interessi di diversi attori stranieri nel petrolio sudanese.
 Tuttavia restano in sospeso alcune delle principali questioni lasciate irrisolte  sia dall’Accordo generale di pace dell’8 gennaio 2005, che pose formalmente fine all’ultraventennale conflitto civile nel sud, sia dall’indipendenza sudsudanese proclamata l’8 luglio 2011. La più rilevante è quella dell’assegnazione della sovranità sull’Abyei, la regione ricca sia di petrolio sia di pascoli,  contesa tra le due parti e nella quale non si è mai tenuto il referendum in merito previsto in contemporanea con quello in Sud Sudan che  nel gennaio 2011 stabilì la secessione.
Nei giorni scorsi, la delegazione di Khartoum aveva rigettato ancora una volta la proposta del capo mediatore, l’ex presidente sudafricano, Thabo Mbeki, di svolgere finalmente il referendum in questione. Il punto è sempre lo stesso: il Governo di Khartoum vorrebbe che a votare fossero solo   quanti nell’Abyei hanno la cosiddetta residenza permanente, cioè le etnie arabe stanziali dei misseriya, escludendo  invece le comunità di pastori dinka ngok,  tradizionalmente legate al sud. Su questo punto, il presidente sudanese  Omar Hassan el Bashir e quello sudsudanese Salva Kiir Mayardit, che negli ultimi giorni hanno condotto di persona il negoziato ad Addis Abeba,  non sono usciti dall’impasse.
Quello sull’Abyei era uno degli accordi che il Consiglio di sicurezza dell’Onu aveva chiesto alle parti di raggiungere entro il 22 settembre, sotto pena di sanzioni. Ma  lo stesso  Mbeki, secondo quanto riferito da fonti concordi,  ha di fatto ottenuto una proroga  dell’ultimatum sulle questioni pendenti, mettendo sul piatto della bilancia le intese invece già raggiunte.
Quelle rilevanti sono sostanzialmente due. La prima è l’impegno assunto da Khartoum sui temi  della cittadinanza e delle cosiddette quattro libertà: di movimento, di residenza, di lavoro e di proprietà. Lo scioglimento di questo punto di contrasto era atteso con ansia da  centinaia di migliaia di migranti sudsudanesi che rischiavano di essere espulsi da Khartoum dopo la divisione in due del Paese.
La questione, tra l’altro, ha ricadute importanti anche sui cristiani sudanesi, in minoranza nel nord musulmano, come ha dichiarato all’agenzia di stampa Misna  il nunzio apostolico a Khartoum, l’arcivescovo Boccardi, in un primo commento subito dopo la notizia della conclusione del negoziato ad Addis Abeba. Secondo il nunzio,   questa intesa «consentirà al personale religioso di restare in Sudan e di assicurare alla Chiesa la possibilità di vivere e di operare come in passato».  Pur ricordando che  centinaia di migliaia di persone sono già  tornate nelle terre d’origine del sud, il nunzio ha ricordato che  le parrocchie, le scuole e gli ospedali della Chiesa restano aperti, aggiungendo che «un considerevole numero di cristiani, forse, decideranno di restare in Sudan».
L’altro punto riguarda  la costituzione di  un’area  demilitarizzata di dieci chilometri di profondità lungo  i circa 1.800 chilometri del confine comune. Proprio questa zona cuscinetto dovrebbe  consentire di applicare l’accordo sulla ripresa della produzione petrolifera, già raggiunto ad agosto,  ma subordinato  al raggiungimento di un’intesa sulla sicurezza, dopo che per mesi il confine è stato teatro di scontri armati.
Il Governo sudsudanese di Juba, nel cui territorio si trova il grosso  dei giacimenti petroliferi, a parte quelli dell’Abyei,  aveva sospeso le attività di  estrazione lo scorso gennaio, dopo l’ennesimo fallimento nella ricerca di un accordo con Khartoum riguardo alle imposte sul transito del greggio negli oleodotti sudanesi. Le autorità di  Juba avevano  più volte accusato Khartoum di imporre tariffe anche trenta volte superiori a  quelle praticate usualmente  nel mondo.
In realtà, quella di Khartoum era stata una sorta di ritorsione al rifiuto sudsudanese di far valere anche dopo l’indipendenza le ripartizioni delle risorse petrolifere a suo tempo fissate, sia pure per i  previsti sei anni di transizione, dall’Accordo generale di pace del 2005.
Una volta proclamata l’indipendenza, invece, il Governo sudsudanese ha deciso di gestire completamente in proprio l’estrazione di greggio e di gas, limitandosi a offrire un pedaggio per l’uso degli oleodotti del nord, in attesa di realizzarne uno in proprio verso i porti del Kenya.
A complicare il tutto è arrivata la ripresa dei combattimenti nelle zone di confine, in particolare negli Stati sudanesi del Kordofan meridionale e del Nilo azzurro, dove l’esercito di Khartoum fronteggia le formazioni ribelli del Movimento popolare di liberazione sudanese — Nord (Splm-N), considerato  vicino, se non direttamente sostenuto dall’omonima  formazione che esprime oggi il Governo di Juba. L’incancrenirsi della crisi ha avuto ripercussioni pesantissime sulle popolazioni di entrambe le parti, alche al di fuori delle zone di confine investite dagli scontri e dove è esplosa l’ennesima emergenza profughi. Con il blocco delle estrazioni petrolifere, il  Sud Sudan ha perduto da gennaio  il 98 per cento delle sue entrate valutarie. Né fino a questo momento il Governo di Juba è riuscito a trovare  nuove fonti di finanziamento in misura adeguata, nonostante che abbia preso in considerazione anche la vendita a soggetti stranieri di concessioni per lo sfruttamento delle sue risorse naturali.
 Da parte sua, il Sudan, privato dei rifornimenti petroliferi, si è trovato ad affrontare una  crisi economica senza precedenti. Nei mesi scorsi ci sono stati  rincari del carburante fino al 60 per cento e, come sempre accade in Africa in questi casi, sono immediatamente aumentati di prezzo  tutti i prodotti di consumo, compresi i generi di prima necessità,  la cui consegna è inevitabilmente soggetta al trasporto su gomma. Nei mesi primaverili ed estivi di quest’anno l’inflazione ha superato un tasso del 40 per cento. Ora la situazione dovrebbe migliorare, anche se prima di rimettere in funzione la distribuzione di petrolio ci vorranno settimane. Alcune  infrastrutture risultano infatti danneggiate dal conflitto tra le truppe sudanesi e i ribelli dell’Splm-N. Inoltre gli oleodotti, durante i lunghi mesi di inattività, sono stati allagati per prevenirne il deterioramento.
C’è quanto basta perché alcuni osservatori ritengano quella raggiunta ad Addis Abeba  una tregua per sfinimento più che una pace. L’auspicio resta che il relativo respiro dato alle popolazioni si consolidi e che alla pace si arrivi davvero.

L'Osservatore Romano 30 settembre 2012)