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Stupidità e ferocia

8 agosto 2024

Quanto accaduto questa settimana in Gran Bretagna, con reiterati episodi di violenza razzista, obbliga a riflessioni amare sul progressivo venir meno dei valori faticosamente affermati in Europa – e più generale in Occidente – dopo gli orrori del nazismo e del fascismo culminati con la mattanza della seconda guerra mondiale. Per cinquant’anni la scelta su quei valori ha garantito all’Europa il periodo di pace più lungo della sua storia. La svolta negativa è incominciata, paradossalmente, con la fine della guerra fredda e il crollo del sistema sovietico. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come molti potenti affermano pomposamente e molti ingenui magari credono ancora in buona fede. Non c’è stata nessuna affermazione delle condizioni ispirate al diritto internazionale, tantomeno alla Dottrina sociale della Chiesa che di quel diritto accoglie i valori più autentici, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.

Al tempo stesso c’è stato quasi contemporaneamente il risorgere dei nazionalismi, per secoli il vero cancro dell’Europa. La prima esplosione ci fu nell’ex Jugoslavia, dove per la prima volta dopo il 1945. La guerra tornò a devastare città europee. E se all’epoca sembrò a molti – non a tutti, compreso chi traccia queste righe – una reazione al lungo congelamento del sistema comunista, i fatti si sono incaricati di dimostrare che quel morbo non riguardava solo l’Est europeo, ma il continente tutto e non solo. Lo si chiami neofascismo, neonazismo, sovranismo o suprematismo bianco è sempre la stessa realtà perniciosa, sempre con lo stesso schema per distorcere e appiattire la capacità di pensare e di documentarsi delle cittadinanze meno attente: metti loro paura e indica un nemico. Un tempo erano le democrazie “demo-pluto-giudaico-massoniche”, con particolare istigazione contro gli ebrei, ma anche contro i nomadi. Poi sono diventati i migranti e gli islamici in genere.

La situazione in Europa è ormai nota a tutti. Ma questa deriva democratica, nonostante significative reazioni popolari, con ultimo esempio il voto alle elezioni politiche francesi, ormai si sta facendo largo anche negli Stati Uniti, dove l’istigatore di un attacco al Campidoglio di quattro anni fa, sotto processo per svariati reati, torna a correre per la Casa Bianca dichiarando esplicitamente che non riconoscerà una nuova sconfitta e che comunque in caso di sua vittoria “queste elezioni saranno le ultime perché le cose cambieranno”. Saranno pure farneticazioni propagandistiche, ma certo c’è da preoccuparsi.

E soprattutto c’è da imparare a riflettere, perché la democrazia e il diritto internazionale non sono mai dati per sempre e purtroppo se non si difendono con l’impegno sociale e politico continuo, costa nuovo sangue riconquistarli.

Congedo dai lettori

Le dimissioni da direttore responsabile di Sosta e Ripresa motivate ai lettori

Giubileo, Padre nostro e senso che non si coglie

29 giugno 1024

C’è nell’avvicinarsi del Giubileo del 2025 una strana incuria nel dibattito internazionale sul senso forse più proprio dell’avvenimento. Un senso che basterebbe la preghiera del Padre nostro a obbligare almeno chi si dichiara cristiano a ricordare: “… rimetti a noi i nostri debiti come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori…”.  Lo stesso Gesù ci ha detto di pregare così e noi lo facciamo più o meno da duemila anni. A chiacchiere. Del resto, già nell’antico Testamento la remissione, la cancellazione dei debiti (che riducono in schiavitù) era il segno caratterizzante il Giubileo. E se non fosse all’apparenza blasfemo trattandosi di Parola di Dio, bisognerebbe ripetere l’espressione, dato che nell’antico Israele quell’indicazione biblica di fatto non è mai stata applicata, se non da alcuni singoli individui che conoscevano bene il significato di giustizia.

E la situazione oggi è anche peggiorata. Nel mondo miliardi di persone affamate, assetate, prive di cure, schiavizzate di fatto, aggiungono a queste condizioni inumane il peso spaventoso del debito internazionale dei loro Paesi.  Succede un po’ ovunque, ma la condizione peggiore resta quella dell’Africa, che non è povera, ma impoverita dallo sfruttamento che ha sempre subito. E un bene, dunque, che si cerchi di riproporre la questione del debito internazionale all’attenzione delle opinioni pubbliche, come ha fatto, per esempio, in quest’ultima settimane il giornalista comboniano padre Giulio Albanese – che per inciso Sosta e Ripresa ha l’orgoglio di annoverare tra le proprie firme – sulle due principali testate in italiano della stampa cattolica, L’Osservatore Romano e Avvenire.

Per capire meglio è utile premettere un po’ di ricapitolazione storica. Nel periodo della almeno apparente decolonizzazione, in particolare negli anni Sessanta, sembrò esserci in Africa una stagione di crescita e di cooperazione, sembrò persino che il nord del mondo riconoscesse il suo debito e fosse disposto a pagarlo, in aiuti e investimenti. Né a questo fu estranea l’azione della Chiesa, soprattutto con i missionari, che in quegli anni del Concilio Vaticano II riscoprì pienamente il suo compito evangelico e sociale universale, dopo secoli di eurocentrismo non di rado macchiato da collateralismo con il potere coloniale. Sì, gli anni Sessanta sembrarono una stagione di speranza per l’Africa. Ma già c’erano i germi di una nuova condanna al sottosviluppo, compresa la sottovalutazione della questione agricola a vantaggio dell’industrializzazione. E c’era soprattutto il germe della guerra, responsabilità certo di classi dirigenti africane via via sempre più preda di corruzione e di bramosia di potere personale, ma anche e soprattutto di interessi stranieri che le ispiravano e le alimentavano.

Nei 35 anni dalla fine della guerra fredda è strutturalmente mutato lo scenario internazionale. La sconfitta del totalitarismo comunista non ha significato diffusione della democrazia, come si scrive e si legge ovunque (per inciso, in particolare in Italia dove a lucrare voti dichiarando di combattere, sempre a chiacchiere, il comunismo si è incominciato dopo ’89, quando cioè era ormai almeno in Europa una realtà esaurita). Non c’è stata nessuna affermazione delle condizioni ispirate al diritto internazionale, ma la diffusione sempre meno arginata di una finanzia predatoria che indirizza le scelte politiche, per non parlare della tecnologia e della produzione di armi delle quali si impone sempre più l’utilizzo.

E questo ci riporta al tema di questo articolo, cioè la preoccupazione e lo scandalo che all’immediata vigilia del Giubileo la questione del debito africano (non solo con gli Stati, ma anche con gli attori privati) scompaia dai radar delle opinioni pubbliche, nell’aumento progressivo dei costi “di servizio” (cioè i soli interessi da pagare annualmente), in cifra assoluta arrivati vicino a 1.200 miliardi di dollari. É una pietra d’inciampo spaventosa per ogni sforzo di sviluppo, soprattutto se raffrontata al valore complessivo del prodotto interno lordo africano che è di circa 3 trilioni di dollari. Per capirsi basta confrontarlo con quello dell’Unione europea, di 16 trilioni e mezzo con una popolazione di un terzo.

Questa predazione della vita delle persone ormai si fa sentire anche in Italia. Si pensi agli extra profitti delle banche, mai tassati, mentre gli interessi di prestiti e mutui hanno ormai raggiunto livelli di usura. Si pensi al dissesto di sanità, istruzione e previdenza mentre si aumenta la spesa in armamenti. Si pensi alla cancellazione delle misure di sostegno all’indigenza, mentre gli unici debiti condonati dalle attuali autorità governative sono quelli fraudolenti dei grandi evasori fiscali. Ma la condizione degli africani è ovviamente ben più drammatica.

Un giornalista non è certo un prete in confessionale, ma stavolta una “penitenza” al lettore mi arrogo il diritto di darla: reciti un Padre nostro e ci rifletta.

Promemoria per il voto europeo

 

8 giugni 1027Alla vigilia di un voto la gran parte della stampa – tolta qualche testata che ama definire neutralità il proprio cerchiobottismo – è solita prendere posizione o almeno farla capire. Come giornalista e direttore responsabile di questa testata non intendo sottrarmi da esprimere la mia nell’immediata vigilia del voto per rinnovare il Parlamento europeo. Lo faccio premettendo due aspetti, uno di stretta attualità e uno di sia pur sommaria indicazione storica.

Il primo riguarda il sistema di voto. Quello per il Parlamento europeo è l’unico – assenteismi a parte e a parte la soglia di sbarramento al 4% che inevitabilmente priverà qualcuno del diritto di tribuna – a restituire proporzionalmente la reale composizione degli elettorati. Per stare al solo esempio italiano, le ultime elezione politiche, grazie a una legge maggioritaria forsennata, per non dire truffaldina, hanno dato una schiacciante maggioranza parlamentare a una coalizione di partiti che ha ottenuto meno della metà dei voti espressi e cioè, data l’altissima e ormai solita diserzione delle urne da parte di cittadini che della classe politica non si fidano più, neppure un quarto dei consensi degli aventi diritto al voto.  Il che – balle propagandistiche a parte – li incoraggia a due iniziative che, in caso di successo da un lato, con la elezione diretta del capo dell’esecutivo, vanificherebbe il bilanciamento dei poteri, fondamento di una reale democrazia come quella disegnata dalla nostra Costituzione, dall’altro, con la cosiddetta autonomia differenziata, darebbe un colpo mortale ai principi di solidarietà nazionale.

Il secondo aspetto, quello di memoria storica, sta nel ricordare che l’idea fondante di un’Europa dei popoli e non del conquistatore di turno, nasce con il socialismo europeo e con la contemporanea teorizzazione propria del cattolicesimo democratico che pure all’epoca non partecipava attivamente alla vita politica italiana per la “questione romana” seguita alla perdita del potere temporale del Papa (che la storia si è incaricata di rivelare provvidenziale). Manifesto di Ventotene Pierluigi Natalia Sta nel ricordare che la sua prima espressione programmatica fu il Manifesto di Ventotene, scritto in quell’isola dove erano detenuti gli avversari del criminale regime fascista, da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni nel 1941, nel pieno della guerra mondiale scatenata dalle feroci dittature di Berlino e di Roma.

Konrad Adenauerr
Konrad Adenauerr

Sta nel ricordare che nell’Europa liberata dal nazifascismo furono tre leader cattolici, il francese Robert Schuman, il tedesco Konrad Adenauerr, ’italiano Alcide De Gasperi.

Robert Schuman
Robert Schuman

Erano tutti e tre di lingua tedesca quasi madre (Schuman era nato in Lussemburgo nel 1886, ma il padre era lorenese e all’epoca Lorena e Alsazia appartenevano alla Germania, quindi fino ai trent’anni era stato cittadino tedesco e francese lo diventò alla fine della prima guerra mondiale;

Alcide De Gasperi Pierluigi Natalia
Alcide De Gasperi

De Gasperi era nato nel 1891 in Trentino, all’epoca parte dell’impero austro-ungarico e italiano lo diventò anche lui nel 1918). Tutti e tre erano stati perseguitati dalle dittature che per un ventennio avevano schiacciato l’Italia e per un decennio la Germania, sfociando nello sterminio sistematico di ebrei, nomadi, omosessuali, oppositori politici e precipitando il continente nella mattanza della guerra.

Pensiamoci bene tutti prima di votare. Pensiamo, noi italiani, se affidarci a quelle posizioni politiche dalle quali è nata la nostra Costituzione figlia della Resistenza e dell’antifascismo o a chi antifascista non può e non vuole dichiararsi. Se vogliamo un’Europa democratica, con il potere affidato al popolo e con le garanzie delle minoranze e dei diritti umani, o un’accozzaglia di interessi di miope visione localista, se vogliamo un popolo europeo democratico e sovrano o piccoli egoistici popoli seguaci di capetti o capette di turno.

Pensiamo soprattutto, in questa fase, se vogliamo credere nel progetto di un’Europa più coesa sui punti fondamentali della convivenza civile, il finanziamento prioritario della sanità pubblica, con stanziamenti sulla base del prodotto interno lordo continentale, senza distinguo a favore delle strutture private. Con l’obbligo di retribuzione decente del lavoro, un salario minimo europeo che non consenta a nessuno – e ora l’Italia è tra questi – di spacciare il lavoro povero per aumento dell’occupazione. Con un sostegno al bisogno di effettiva incidenza, come esiste del resto quasi in ogni Paese dell’Unione, ma non nel nostro, dove era stato finalmente introdotto, ma è stato cancellato con motivazioni convincenti solo per chi nel bisogno non è mai stato. Con un sistema fiscale equo, il che significa progressivo, e controllato davvero, senza ammiccamenti ai potentati finanziari, a quanti realizzano guadagni immensi sottoposti a tassazioni nulle o irrisorie, e neppure agli evasori di minore rilevanza.

E per gli eletti italiani chiediamo – e verifichiamone il rispetto – di non distaccarsi dal dettato costituzionale che ripudia la guerra come strumento di soluzione dei contrasti tra Nazioni.  E mi sentirei di aggiungere che il ripudio vale per le guerre in proprio e per quelle per procura.

Chiediamo un’Europa che cooperi sulle grandi sfide mondiali, a partire da quelle su clima e ambiente, con tutti i Paesi del mondo, a Est e soprattutto a Sud, e non guardi solo a Ovest, appiattita in un’alleanza che da almeno 35 anni non ha più nulla di difensivo.

Marco Tarquinio Pierluigi Natalia
Marco Tarquinio

Il mio voto vale ovviamente per me, ma pure sento il dovere di comunicarlo pubblicamente ai miei lettori, per pochi che siano. Voterò per Marco Tarquinio, candidato indipendente nelle liste del Partito Democratico (e indipendente nel suo caso non è una parola vuota), una delle firme migliori, delle menti più lucide, delle coscienze più limpide, delle schiene più dritte del giornalismo cattolico. E sono ragionevolmente sicuro che non solo Spinelli, Rossi e Colorni, tutti di area socialista o azionista, ma lo stesso De Gasperi oggi farebbe come me, che del resto conosco abbastanza i suoi eredi per ritenerli d’accordo.

... si fece buio su tutta la terra ...

... si fece buio su tutta la terra ... - Pierluigi Natalia

 

 29 marzo 2024

Le parole del Vangelo che accompagnano l’agonia e la morte in croce del Signore – ”… si fece buio su tutta la Terra …” ( Marco 15, 33) – sembrano raccontare questo tempo della nostra vicenda. Come spesso accaduto nella storia dell’umanità, ancora e forse più oggi il Venerdì Santo sembra prolungarsi per mesi, per anni, nello strazio della fame e della sete, che politiche dissennate di incuria per il pianeta continuano ad accrescere, , con carestie implementate e accresciute, delle malattie che diventano sempre meno impegno di cura pubblica e sempre più vantaggio di lucro privato, nella disperazione di un lavoro che manca o che troppo spesso è ridotto a uno sfruttamento penoso con compensi non bastanti a garantire una condizione appena dignitosa. E più di tutto con la follia scellerata della guerra, in cui tutto si perde, con la negazione della pace in cui tutto può essere avviato a sanarsi.

Sì: il mondo e in esso il nostro Paese sprofondano e si trascinano in un Venerdì di dolore, di individualismi impotenti o egoistici, di tradimenti e di violenze, di paure e di divisioni, mentre l’alba della Pasqua sembra lontana. A provocare questo sconforto contribuisce il frastuono di una comunicazione falsificante e cacofonica non solo sui cosiddetti social, ma anche e soprattutto di chi ricopre ruoli di responsabilità istituzionale che imporrebbero verità e impegno e che millantano risultati che la condizione generale smentisce. Ma anche di chi sembra aver dimenticato il bambino, il malato, il vecchio, sui quali si misura la civiltà di un popolo e mostra di curarsi soprattutto dei presunti diritti della sfera sessuale. Basti pensare come sono ridotte la scuola, la sanità e la previdenza, ovviamente pubbliche, perché quelle private prosperano e per chi se le può permettere non ci sono problemi. Non ci sono diritti, ma solo privilegi.

E le parole perdono senso. Da un lato o dall’altro Dio è dimenticato o almeno lo è quella dottrina sociale della Chiesa nella quale si esprime l’identità cattolica, la patria di cui in tanti si riempiono la bocca serve per chiamare alle armi o almeno per indicare un nemico sul quale indirizzare odio e rancore, la famiglia ridotta a una generica forma di convivenza in palese contraddizione, tra l’altro, con il dettato costituzionale, il popolo considerato solo in quanto somma di consumatori e per quanti non possono procurarsi neppure l’essenziale peggio per loro. Si vantano presunti aumenti dell’occupazione e si tralascia che si tratta di lavori incerti e mal pagati.

Fila Mensa Caritas Milano
Fila Caritas Milano

L’Istat ha certificato che nel 2023 è aumentato il numero delle persone in povertà assoluta. Ed è significativo che la percentuale maggiore di tale aumento sia rappresentata da famiglie in cui pure c’è una persona che lavora. E intanto si aumenta la spesa per le armi e si contrae la spesa sociale.

Sì, in questo prolungato venerdì di passione il buio continua a incombere su tutti noi. Ma non è – quanti si professano cattolici dovrebbero saperlo – una condizione perpetua. Si può e si deve guardare alla prospettiva della Pasqua, che non è come sembra da ridurre a occasione di dolci con sorpresa, di pranzi particolarmente sostanziosi e di vacanze, ma la celebrazione per i cristiani dell’avvenimento centrale della storia umana.

La Settimana Santa si è aperta con la Domenica delle Palme che ha il suo centro nella Passione del Signore. Scrivevo alcuni anni fa su queste pagine che le fronde di palma o di olivo, come si usa da noi, non sono una sorta di portafortuna o di talismano: sono un omaggio alla regalità di Gesù. Ma questa regalità si manifesta in modo sconcertante sulla croce, rinuncia a schemi di potenza umana, indica per quali strade umanamente illogiche passi la gloria, che diventa misura di confronto e di verifica nel servizio dei fratelli. Proprio in questo misterioso scandalo di umiliazione, di sofferenza, di abbandono totale si compie il disegno salvifico di Dio.

Eppure non dobbiamo nasconderci che nell’impatto con la croce la fede vacilla. Se il patibolo prima schiaccia e poi uccide il Giusto per eccellenza, allora la vicenda umana sembra dar ragione alla potenza dell’ingiustizia, della violenza e della malvagità. Tutti noi siamo investiti dalla domanda inquietante sul cumulo insopportabile di dolore che investe tutti i crocifissi della storia. Dove sono la perfezione, l’onnipotenza, la giustizia di Dio se non interviene in certe situazioni intollerabili?

Ripeto di non avere risposte da darvi né insegnamenti da proporvi. Da fratello tra fratelli, senza una specifica missione ministeriale, posso solo condividere con voi la coscienza che sulla croce muoiono tutte le false immagini di Dio che la mente umana ha partorito e che continuiamo, forse inconsciamente, ad alimentare e che il Vangelo è il vocabolario che possiamo usare per distinguere la differenza tra religiosità e fede che la Pasqua esprime. Religiosità è quanto si concentra nell’apparenza e la giustifica. Spesso in modo positivo, ma talora come in una festa priva di sostanza, della quale misuriamo il godimento, ma non indaghiamo il senso. La religiosità è fatta di liturgie non meditate, che spesso debordano in trionfalismo o, peggio, tracimano in fondamentalismo. La religiosità ci porta sia ad osannare l’entrata di Cristo sia a disconoscerlo. Perché non entra mai nel mistero pasquale.

Per farlo occorre la fede. Per seguire Cristo nella solitudine del Getsèmani, bagnata di sudore di sangue, nel processo fatto al debole, nella tortura, nel disprezzo, nell’essere condotto fuori dalle mura della società, nell’essere ucciso sulla croce, occorre la fede.

E occorre la speranza di Maria, per traversare il silenzio del Sabato, per guardare oltre il sepolcro, fino alla pienezza della vita, fino alla Resurrezione. Quella del Cristo, quella dei nostri cari che al sepolcro abbiamo consegnato, la nostra.

E occorre la carità, l’amore, perché la vita non sia una scorciatoia di menzogne o di illusioni, su Dio e su noi stessi. Percorrere la via della croce, come singoli e come comunità, significa dunque chiedere dunque al Signore di accrescere la nostra fede, di aiutarci a non fuggire dal mistero della sofferenza, ma di riconoscerlo come misura d’amore e come nutrimento di un’ostinata speranza.